La ricerca della pietra filosofale
La prima decade del nuovo millennio ha rappresentato, per l’osservatore delle dinamiche evolutive dell’organizzazione e della funzione pubblica, un eccezionale laboratorio alchemico per la sperimentazione di formule in grado di coniugare i princìpi normativi dell’azione amministrativa con un efficientismo realizzativo tipico, invece, delle organizzazioni di matrice privatistica.
Il percorso di sedimentazione delle esperienze normative che avevano coinvolto l’organizzazione pubblica, il procedimento amministrativo e la giustizia amministrativa si era concluso; le istanze tanto politiche quanto del corpo sociale chiedevano, invece, uno sforzo diretto a garantire che il processo decisionale connesso agli interventi pubblici fosse in grado di intercettare – pur nel perimetro garantista delle regole connesse all’azione della Pubblica Amministrazione – le reali necessità dei soggetti interessati dall’esercizio del potere.
Si avvertiva inoltre la necessità che l’apparato pubblico fosse in grado di rispondere alle esigenze del Paese attraverso un sistema di servizi efficiente, efficace e produttivo di valore aggiunto per gli stakeholder; l’offerta pubblica doveva, in sintesi, emanciparsi dal ruolo statico di regolazione delle attività collettive e porsi quale promotore dello sviluppo socioeconomico dei territori e delle imprese.
Tale approccio venne perseguito attraverso interventi di diversa natura e finalità specifica; il D.lgs. 267 del 2000 aveva delineato un nuovo perimetro normativo delle autonomie locali; la legge costituzionale n. 3 del 2001 aveva promosso un fattivo decentramento basato sul governo di prossimità; il decreto legge 228 del 2006 aveva disposto importanti liberalizzazioni dei servizi e decise razionalizzazioni delle partecipazioni societarie degli enti locali; il D.lgs.150 del 2009 aveva avviato, per la Pubblica Amministrazione, un ciclo generale di gestione della performance, nel solco del passaggio dalla cultura di mezzi a quella di risultati.
The elephant in the room, tuttavia, era rappresentato dalla necessità, per la Pubblica Amministrazione come organizzazione, di sviluppare competenze e di erogare servizi in linea con gli standard di efficienza ed efficacia necessari a promuovere e sostenere la crescita del sistema Paese.
Anche il modello organizzativo delle agenzie e delle aziende pubbliche, rispettivamente deputate allo svolgimento di attività tecnico-operativo e operativo-produttivo era, infatti, in via di superamento e aveva subito in generale (con le ovvie eccezioni) un progressivo processo di assimilazione culturale alle amministrazioni di riferimento.
Un tessuto resistente
Spesso accade, soprattutto nell’ambito delle istituzioni unionali, che determinate soluzioni non siano frutto di impostazioni regolatorie definite, ma si sviluppino nel tempo come fattispecie evolutive di strumenti o istituti preesistenti; la sostanza delle cose ne precede la forma che risulta, al termine del processo, condizionata dagli effetti che – medio tempore – si sono prodotti.
La necessità era, come detto, quella di fornire servizi con una performance assimilabile a quella di mercato, senza far pagare alla collettività il costo – in termini di riduzione dell’utilità sociale – dell’abdicazione all’erogazione degli stessi da parte degli enti pubblici.
La soluzione si presentò attraverso la ripresa dei princìpi illustrati dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella nota sentenza del 18 novembre 1999 sul caso Teckal (C-107/98).
La Corte sostenne la possibilità di affidare direttamente un servizio a soggetti – formalmente privati ma sostanzialmente pubblici – purché sottoposti al controllo strutturale dell’ente affidante (c.d. requisito del controllo analogo) e che svolgessero la parte prevalente della propria attività in favore dell’ente medesimo (c.d. requisito della dedizione prevalente); tali circostanze, infatti, erano ritenute idonee a configurare un rapporto di immedesimazione organica tra l’amministrazione affidante e l’ente affidatario, per cui quest’ultimo, pur essendo formalmente diverso dall’amministrazione controllante, ne costituiva un diretto strumento operativo.
L’in house providing, quindi, venne normato nell’ambito delle nuove direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni (direttive 2014/24/UE, 2014/25/UE e 2014/23/UE) e, poi, espressamente codificato nell’art. 5 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50.
Il recepimento dell’istituto nel sistema di diritto nazionale fu, tuttavia, soggetto a lunghe e complicate vicissitudini, anche a causa delle interpretazioni fornite dai giudici amministrativi e dall’ANAC in uno sforzo teleologico spesso compromesso da un orientamento – tutto nazionale – all’esegesi normativa anziché allo sviluppo di modelli in grado di innovare il tessuto giuridico.
La prudente diffidenza verso l’istituto da parte di legislatore e interpreti è principalmente ascrivibile a due cause.
Da un lato la normativa unionale, a tratti troppo lacunosa e incerta (si pensi all’art.18 della direttiva 2004/18/CEE), ha reso difficilmente individuabile la direzione da percorrere incoraggiando, al contempo, vezzosi atteggiamenti pandettistici.
Dall’altro, l’in house è stato spesso declinato come mera duplicazione delle funzioni dell’ente affidante, al fine di superare le inefficienze interne delle amministrazioni controllanti, o come soluzione elusiva dell’obbligo di reperire i servizi sul mercato, al fine di mantenere obsolete rendite di posizione nei confronti del regime di libera concorrenza.
Tali circostanze hanno, nel tempo, relegato il modello a ipotesi residuale ed eccezionale rispetto al ricorso alle procedure a evidenza pubblica (si pensi all’adunanza plenaria 1/2008 del Consiglio di Stato o alla delibera 1192 del 2016 sul caso Sogei dell’ANAC).
Ciò in quanto l’in house veniva interpretato esclusivamente alla luce della compressione dell’obiettivo comunitario di apertura del mercato ad una concorrenza effettiva.
E quindi uscimmo a riveder le stelle
Oggi, tuttavia, un rinnovato vigore del modello è promosso dall’attuale Codice dei contratti pubblici che, all’art. 7, conferisce all’autoproduzione di beni e servizi da parte delle amministrazioni pari dignità rispetto all’esternalizzazione.
È un cambio di prospettiva che abbandona la visione “mercatocentrica” verso una rinnovata ricerca dell’utilità sociale e dei vantaggi dell’affidamento in house in termini di obiettivi di universalità, efficienza, qualità della prestazione e razionale impiego di risorse pubbliche; si riprende, in estrema sintesi, l’approccio neutro alla tipologia di reperimento dei servizi necessari all’ente pubblico già teorizzato dalla Corte di giustizia UE (C-410/04 del 6 aprile 2006).
La sfida che si presenta agli amministratori pubblici è quella di declinare correttamente l’istituto nel solco dei parametri posti dal legislatore. L’in house providing si pone quale modello in grado di garantire efficienza ed efficacia senza disperdere il patrimonio pubblico di conoscenza e competenza, conservando l’indirizzo politico dell’amministrazione a garanzia di prestazioni che siano in grado di produrre utilità sociale ed economica per cittadini e imprese. L’in house non deve indulgere alla tentazione di sopperire alle carenze strutturali delle amministrazioni, ma deve porsi quale strumento per acquisire competenze verticali e prestazioni specialistiche sotto l’egida dell’ente di riferimento, anche nel necessario raccordo con i soggetti amministrati cui le società in house sono strutturalmente più vicine. Prestazioni differenti da quelle reperibili sul mercato in regime di concorrenza perché contraddistinte dall’imparzialità dell’azione amministrativa, dalla sensibilità connessa alle pubbliche funzioni e dalla valorizzazione e sistematizzazione delle esperienze di amministrazione e di governo.
Esistono già modelli virtuosi di riferimento.
Il Sistema camerale si avvale di società in house a forte specializzazione, in grado di completarne l’azione nell’ottica di soddisfare al meglio il mandato istituzionale, anche in ambiti di collaborazione con altri settori dello Stato.
Unioncamere e le Camere di commercio, a mero titolo esemplificativo, sono partner del Masaf nell’attuazione del Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura. In tale contesto, le finalità istituzionali del sistema camerale connesse alla promozione delle economie locali vengono integrate, per quanto attiene alle analisi economiche e alle azioni di sviluppo della commercializzazione, dal Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne e dalla Borsa Merci Telematica Italiana S.c.p.A. (BMTI).
Tagliacarne, infatti, è il fulcro dell’informazione economica del sistema camerale e opera attraverso ricerche, studi e analisi sulle policy in collaborazione con le altre strutture delle Camere di Commercio. Tra queste ultime, BMTI è la società del Sistema camerale italiano per la regolazione, lo sviluppo e la trasparenza del mercato e per la diffusione dei prezzi all’ingrosso e delle relative analisi.
La capacità istituzionale del Sistema camerale di aggregare le imprese in cluster omogenei ed efficienti – anche per quanto riguarda il potenziamento della capacità amministrativa di aziende spesso troppo parcellizzate – trova sinergia operativa con le competenze del Tagliacarne e di BMTI nell’analisi delle filiere e nella costruzione di mercati moderni, in grado di valorizzare le produzioni in una logica di equità socio-economica che contribuisca fattivamente alla crescita dei territori.
Un modello dinamico, specializzato e in costante contatto con gli stakeholder per rispondere con efficienza e efficacia alle loro esigenze: queste le condizioni perché l’in house providing si affermi come una vera storia di successo.