Sul tema giustizia:
piccole osservazioni
su una “grande riforma”

Tutti gli argomenti prospettati, in tema di riforma, sono stati oggetto di esteso e vivace dibattito svoltosi su ognuno di essi.

Non poteva essere altrimenti poiché la materia da affrontare coinvolge tutti i settori della vita sociale, i conseguenti interessi delle categorie interessate, le necessità di superamento di carenze e negatività riscontrabili, spesso nello stesso testo normativo o nelle adottate interpretazioni.

I conseguenti interventi non hanno trascurato di profondere nel dibattito sommi richiami a fondamentali principi di carattere costituzionale oltreché di diritto sostanziale prospettando, ciascuno per suo conto, imprescindibili ed inderogabili interpretazioni. Sulla base di tali definizioni, accompagnate tutte dall’autorevolezza delle rispettive provenienze, emergono difficoltà nel pronunciamento del legislatore. Il suo compito infatti, pur muovendo dalla valutazione delle tesi prospettate, deve tener conto di interessi generali, peraltro necessariamente collegati a valutazioni su tempi futuri. Il rispetto dei principi costituzionali, infatti, prescrive chiarezza di contenuti e di espressioni ai fini di assicurare certezza e trasparenza di ogni pronunciamento normativo.

Non sorprenderà dunque, in conseguenza di tali considerazioni, il ritorno su argomenti che, pur precedentemente affrontati, richiedono tuttavia qualche ulteriore, sommessa osservazione conseguente le formulazioni normative nel frattempo intervenute.

L’abrogazione del reato di abuso di ufficio, previsto dall’art. 323 c.p. discende dall’accoglimento delle lamentele avanzate dai pubblici funzionari che, ripetutamente, hanno denunciato la forte incidenza della previsione e della interpretazione dell’illecito nell’espletamento della discrezionalità amministrativa.

Il rigore applicativo denunciato aveva, di fatto, determinato il sostanziale stallo della pubblica funzione, intimorita dalla preoccupazione di incorrere nella previsione del reato.

A sostegno di quanto lamentato si è fatto anche riferimento alle limitate affermazioni di responsabilità conseguenti le incriminazioni e alle conclusive definizioni processuali. In aggiunta alla labilità delle incriminazioni è stato sottolineato il danno costituito dal decorso temporale tra incriminazione e definizione del processo che, di fatto, malgrado le assoluzioni, ha costituito un inutile vulnus alle attività lavorative e di carriera delle persone incriminate, sostanzialmente delegittimate sia da un processo giudiziario sia da quello mediatico.

A monte di tali considerazioni va osservato che, in realtà, la norma abrogata conteneva labili confini, che finivano per facilitarne interpretazioni più legate al rigore repressivo di chi era chiamato ad esprimersi che non al volere della legge.

A meglio precisare il quadro delle negative conseguenze, scaturente dalle infondate incriminazioni, va detto che ad esse non sono rimasti estranei pure i magistrati, spesso fatti oggetto di abuso solo per mancanza di condivisione o per generica insoddisfazione delle decisioni da essi adottate.

L’indeterminatezza della norma e la genericità della sua definizione non può non apparire evidente in assenza, nella sua struttura, di una definizione e contenuto del concetto di “abuso”. Si aggiunga a ciò la crescente tendenza dei nostri tempi a considerare l’attribuzione di un diritto, non come riconoscimento ed affermazione di una tranquilla democrazia, quanto invece giustificazione di una arrogante pretesa del suo riconoscimento.

Il facile collegamento tra la configurazione del reato di abuso e l’illecito della corruzione fornisce conferma di una fluidità di elementi di certo non positiva ai fini di una sicura interpretazione.

La U. E. ha infatti più volte affermato costituire l’abuso di ufficio utile elemento nella configurazione e nel contrasto alla corruzione. La giuridica definizione dell’abuso, collegandosi a configurazioni correttive, servirà a favorire migliore precisazione del dovere di correttezza, di osservanza di ruoli e di compiti di ogni soggetto.

Per altro verso l’affermata condivisione dell’abolizione del reato di abuso in atti di ufficio purtroppo non consente di superare il rilievo di come il legislatore non abbandoni il suo ricorso, nelle stesure normative, a concetti ed istituti carenti di certezza e di chiaro contenuto. Ne costituisce esempio, dopo l’indicata soppressione del reato di abuso, la nuova formulazione della ipotesi criminosa del “traffico di influenze illecite”. L’art. 346 bis c.p. punisce “chiunque, fuori dall’ipotesi di concorso nei delitti di corruzione, sfruttando intenzionalmente relazioni esistenti con un pubblico ufficiale…, indebitamente fa dare o promettere… danaro o altra utilità economica…”.

La previsione della norma punisce dunque “l’intenzionale” sfruttamento di relazioni con un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, diretto a far dare o promettere “indebita” dazione di danaro o altra utilità per remunerarne l’esercizio delle funzioni ovvero per realizzare altra mediazione illecita. Ma, individuati così i presupposti di fatto, il comportamento delittuoso, la specificità dell’azione, va osservato che il legislatore non avrebbe avuto bisogno di sottolineare con ulteriore specificazione la “intenzionalità” di un comportamento già insita nel concetto di sfruttamento, né di definire “indebito” il compimento di un atto del pubblico ufficiale contrario, di per sé, ai doveri di ufficio. Il ribadire invece, con specifiche definizioni, concetti già espressi nella stessa dizione normativa ne appesantisce la struttura, complicandone l’accertamento. Infatti, il frequente ricorso all’uso, da parte del legislatore, di aggettivi ed avverbi, non sempre serve a meglio attestare la severità della legge o a favorirne l’efficacia, producendo per contro, difficoltà interpretative nella dimostrazione della loro ricorrenza.

Ulteriore osservazione scaturisce dalla relazione alla previsione contenuta nei lavori preparatori che mentre, da una parte, si esprimono per l’eliminazione dalla struttura del reato del requisito della finalizzazione dell’attività di mediazione illecita, dall’altro considerano la stessa come circostanza aggravante se configurata con il mero esercizio delle funzioni e dei poteri del pubblico ufficiale.

L’argomento in oggetto richiama ulteriormente la ipotesi della corruzione, espressamente esclusa invece dalla riserva formulata nell’incipit della norma.

Vanno sul punto richiamate le considerazioni svolte dalla Corte di Cassazione sulla carenza di specificazioni della illecita influenza che impedisce la tipizzazione della mediazione.

Un diverso approccio normativo avrebbe potuto consigliare, anche mediante regolamentazione delle lobby, migliore definizione dei presupposti e dei contenuti dei rapporti con la Pubblica Amministrazione. Questa infatti attende dalla chiarezza delle norme la giusta regolamentazione che non può esser conseguita con leggi etichettate in maniera roboante e minacciosa, poco risolutive invece sul piano pratico. Ne costituiscono esempio la legge “manette agli evasori” in tema fiscale e quella c. d. “spazzacorrotti” nel contrasto alla corruzione.

Simone Weil correttamente rilevò che la bontà di una legge non si misura con la severità che essa esprime ma con la saggezza di chi la applica.

Ancora due osservazioni sulle norme in tema di intercettazioni.

Le relative proposte hanno giustamente preso in considerazione le carenze prospettate anche sul piano pratico ed attuativo. Tuttavia, malgrado ciò, il problema di fondo rimane sostanzialmente irrisolto nella contrapposizione, che rimane inalterata, tra tutela della riservatezza e diritto di cronaca.

La eguale rilevanza di entrambi i diritti non autorizza giudizi di prevalenza di uno sull’altro. Partendo da tale valutazione, però, la soluzione del problema potrebbe forse esser conseguita mediante una chiara distinzione e collocazione temporale di ciascun diritto nel riconoscimento, pur sempre, delle rispettive e reciproche esigenze.

In ragione di tale considerazione il diritto alla riservatezza dovrebbe ricevere piena e rigorosa tutela sino alla conclusione delle indagini preliminari e con la conoscenza di esse da parte del giudice; il diritto di cronaca riceverebbe da tale momento completa espressione e realizzazione.

La netta suddivisione temporale e la assenza di una sovrapposizione tra i due diritti sembrerebbe non comportare minore possibilità di espressione e di garanzia per entrambi i campi legati ad una democratica divisione e reciproco riconoscimento di esercizio. I soggetti interessati non subirebbero così la pena di una contemporanea duplicità di processi, giudiziario e mediatico; la stampa, dal riscontro di un’acquisizione processuale riceverebbe certezza e garanzia, compiendo appieno la propria rilevante funzione di offrire al pubblico giudizi e dibattiti non inquinati da sospetti, supposizioni, fantasiose formulazioni, illecite strumentalizzazioni.

Il rispetto dei poteri, dei doveri e dei limiti, così come prospettati, dovrebbe ricevere rigorosa, piena, generale e sicura osservanza, rifiutando illecite forme di mercanteggiamento e subdole verità, come tali prospettate.

Nel generale quadro dei plurimi interventi normativi volti a dare maggiore determinatezza alle garanzie difensive, assumono rilevante rilievo le proposte di estensione del contraddittorio preventivo e della collegialità nelle decisioni sulle richieste di custodia in carcere nella fase delle indagini.

L’introduzione del principio del contraddittorio preventivo, nella fase delle indagini preliminari, quando non venga ritenuta la necessità di un provvedimento c. d. “a sorpresa”, contiene una duplice positività: offre innanzitutto la possibilità di un migliore esercizio del diritto di difesa dell’indagato, moderando gli effetti traumatici nella sua vita, conseguenti ad eventi giudiziari, comunque coinvolgenti; in secondo luogo introduce una concreta presenza del giudice nella fase delle indagini preliminari ad ulteriore garanzia della sua indipendenza e di un giusto processo.

L’iniziativa appare di tale interesse da suggerire un più esteso intervento del giudice, anche al di fuori di richieste di provvedimenti cautelari, accorpandolo all’invio della informazione di garanzia ed ai suoi prescritti adempimenti.

L’intervento del giudice e la sua conoscenza dell’esercizio dell’azione penale anticiperebbe, con migliore efficienza e garanzia, quel riscontro cui è sottoposta la richiesta del pubblico ministero indirizzata al giudice, di autorizzazione per la durata e prolungamento dei tempi delle indagini preliminari.

A miglior chiarimento di quanto detto, va pure rilevato che gli ulteriori interventi del giudice, così come suggeriti, realizzando un migliore ed incisivo controllo dell’organo giudicante su quello requirente, contribuirebbe a realizzare, in punto di fatto, quella divisione dei poteri e di separazione, vivacemente invocata nell’ambito della magistratura di più parti.

Una reale riforma della Magistratura, nel senso richiesto, si potrà ottenere incidendo sul rispetto, specificazione e rigorosa definizione dei rispettivi ruoli dei magistrati, giudicanti e requirenti, senza ricorrere a modifiche della Carta Costituzionale, e soprattutto allontanando dalla riforma sospetti, accuse di rivalsa, di punizioni, vendette o arroganti pretese.

In conclusione: all’ingresso in Magistratura si scelga tra i suoi due ruoli, che nel rispetto di una comune vocazione di democrazia e legittimità, ne esprima il completo espletamento e la reciproca sostanziale indipendenza.

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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