Mi chiamo Andrea Bonito e sono un medico infettivologo. Lavoro nell’ unità operativa di medicina della Fondazione Poliambulanza di Brescia da circa 1 anno. Il 28 febbraio 2020 è stato aperto presso il nostro Ospedale il primo reparto dedicato alla cura delle persone affette da COVID-19 e nell’arco di 2 settimane il volto del nostro istituto ospedaliero multispecialistico è profondamente mutato per dedicarsi quasi esclusivamente alla gestione di questa epidemia. Per la cura della polmonite da SARS CoV-2 abbiamo allestito 70 postazioni di Osservazione Breve Intensiva in Pronto Soccorso e 350 posti letto, di cui 70 di terapia intensiva.
Da quel venerdì di fine febbraio vivo in isolamento volontario. Mia moglie Alessandra e mia figlia Zoe, che ha da poco compiuto 3 anni sono andate a vivere dai nonni. Abbiamo deciso di separarci per proteggere i suoi genitori. Sul loro sostegno abbiamo sempre contato per poter lavorare, io in ospedale e mia moglie come medico di famiglia. Non siamo diversi in questo dalla maggior parte delle famiglie italiane che vivono grazie all’amore e alla generosità dei nonni, il vero e inestimabile patrimonio della nostra povera Italia. L’isolamento, la separazione, sono stati per noi un grande sacrificio, una scelta dolorosa e controcorrente presa molto prima che le autorità politiche lo consigliassero, quando tutti, conoscenti e anche colleghi, ci prendevano per matti. Perché lo abbiamo fatto? Perché io e Alessandra siamo entrambi infettivologi e sapevamo che era la cosa giusta da fare.
Gli operatori sanitari che lavorano nell’area COVID-19 sono persone a rischio di contagio. Un rischio personale di ammalarsi di COVID-19 e un rischio collettivo di fare da vettori per la trasmissione del virus SARS CoV-2 al di fuori degli ospedali. Molti colleghi in queste settimane hanno contratto questa infezione. Alcuni di quelli che per 5 anni sono stati i miei maestri nel reparto di Malattie Infettive degli Spedali Civili di Brescia, ho saputo che sono stati ricoverati; due di loro sono finiti nel reparto di terapia intensiva e mentre scrivo queste parole stanno ancora lottando per la vita.
La vera malattia contagiosa negli ospedali, è però stata la dedizione, il sacrificio, la generosità, la collaborazione; una epidemia di buone pratiche che è stata più forte del virus. Presto in tutti i nosocomi della Lombardia è stato necessario arruolare nei reparti COVID-19 anche medici e infermieri provenienti da aree diverse da quella internistica. Una follia? No, una necessità. Anche mio padre, neurologo presso l’Ospedale Papa Giovani XXIII di Bergamo, è ormai a tempo pieno impegnato nella cura dei malati con polmonite da SARS CoV-2. Mi sono iscritto alla facoltà di Medicina perché volevo diventare un neurologo (è una passione contagiosa quella del medico, soprattutto se chi la pratica ama il proprio lavoro). Ho poi deciso negli anni dell’università di separarmi dalle orme di mio padre, perché è giusto così, scegliendo un cammino diverso, personale, le Malattie Infettive. Ora che mio sta per andare in pensione si è messo lui a rubarmi il mestiere. Chi l’avrebbe mai detto: il dr. Bonito, apprendista infettivologo. Ci sentiamo ogni giorno al telefono per scambiarci consigli, per insegnarci l’un l’altro quello che abbiamo imparato. In questa epidemia stiamo tutti apprendendo molto e crescendo, come medici ma soprattutto come persone. Il nostro primo maestro sono i malati, è stato mio padre a insegnarmelo. Ognuno di noi, ancora prima di essere uno specialista è un medico; negli ospedali che si sono convertiti per la cura delle persone affette da COVID-19 c’è posto per tutti. Nessuno resta senza lavoro. A ognuno viene dato secondo il proprio talento. C’è che si dedica all’attività clinica vera e propria, visitando le persone malate, chi telefona ai familiari per informarli delle condizioni di salute dei propri cari, chi aiuta a scrivere le lettere di dimissione, chi si impegna ad arruolare i pazienti per i protocolli di terapia, chi si occupa di aggiornarsi leggendo la letteratura scientifica e orienta giorno per giorno la rotta delle nostre scelte terapeutiche, chi si spende per recuperare il materiale e i famaci necessari per la cura di questi malati che scarseggia ovunque, chi scrive i protocolli di ricerca, chi raccoglie dati che ci consentiranno di rispondere alle domande che ancora non hanno una risposta etc. La maggior parte di noi fa molte di queste cose insieme. C’è bisogno soprattutto di curanti, professionisti capaci di ascoltare, di collaborare, di chiedere aiuto, di imparare e di insegnare. Con dedizione, generosità e resistenza si stanno spendendo ed esprimendo tutte le professioni sanitarie: infermieri, operatori socio sanitari (OSS), terapisti, medici, psicologi, assistenti sociali, tecnici di radiologia.
La Direzione Aziendale dell’ospedale in cui lavoro per far fronte alla carenza di personale dell’area internistica, che ha fatto seguito alla crescita esponenziale del numero di letti dedicati ai pazienti SARS CoV-2 positivi, ha fatto una scelta coraggiosa, saggia e sofferta: il reclutamento volontario.
Questa scelta penso sia presa a partire dalla fiducia che chi ha il compito di governare il nostro ospedale nutriva per i suoi dipendenti, che credeva, non si sarebbero tirati indietro. È stata una scelta coraggiosa: avremmo potuto non avere adesioni ed essere costretti a prendere poi, con qualche giorno di ritardo, una decisione che non avremmo mai voluto affrontare, quella che in altri contesti chiameremmo leva obbligatoria. È stata anche una scelta saggia: lavorare fianco a fianco con persone motivate significa lavorare bene e questo non è un dettaglio. Così facendo si riduce il rischio di contagio tra il personale e migliora la qualità del nostro operare. È stata una scelta sofferta: c’era chi, comprensibilmente preoccupato per il rischio di contagio, diceva che bisognava rifiutarsi di lavorare; che, come nel primo soccorso, la sicurezza della scena è condizione necessaria per poter operare. Mi è stato anche detto: come puoi proprio tu che sei un medico infettivologo non sottolineare la gravità della carenza di dispositivi di protezione individuale (DPI)?
Si tratta di un dilemma morale che mi accompagna fin dall’esordio dell’epidemia, in quel venerdì pomeriggio di fine febbraio in cui è stato aperto il primo reparto COVID-19 in Poliambulanza. Nel nostro come in tutti gli ospedali della Lombardia, nonostante lo strenuo lavoro che da diverse settimane tutte le Direzioni Sanitarie stavano facendo, presto si sarebbe potuta verificare una carenza di DPI. Non si trattava di una questione di volontà, ma di uno stato di necessità. Il materiale di cui avremmo potuto avere bisogno su tutto il territorio nazionale per affrontare questa epidemia forse non sarebbe bastato. C’erano però già i malati, con i loro bisogni, la loro sofferenza. Il nostro ospedale in questo ha fatto uno sforzo grandioso riuscendo, settimana dopo settimana, a garantire in maniera continuativa per tutto il personale le misure per la sicurezza degli operatori sanitari licenziate dalla World Health Organization (WHO) e recepite dalla Regione Lombardia. Restava però il timore di molti di potersi ammalare. Tι δρασω? Quid agam? Intorno a questa domanda si consumano tutte le tragedie, fin dall’antichità. Che fare? Le persone malate, in un numero sempre crescente, si presentavano al nostro ospedale bisognose di essere curate, molte già in gravi condizioni. Una epidemia che chiaramente stava assumendo dimensioni incontrollabili stava già straripando oltre gli argini tracciati intorno alle zone rosse dove all’inizio ci si illudeva di poter arginare il contagio. La chiamano medicina delle catastrofi. E la risposta a quel punto per me come per molti altri colleghi è stata istintiva, immediata, naturale: fare il dottore non è soltanto un mestiere. Non possiamo sottrarci al nostro compito: prenderci cura delle persone che soffrono. Un ospedale nel corso di una epidemia non può chiudere. Prima di tutto, prima della sicurezza personale, prima dei sacrifici che in questa emergenza ci sono richiesti, prima delle nostre carriere, dei nostri stipendi, delle nostre ferie, dei tanti progetti che abbiamo dovuto interrompere, viene il fatto che siamo medici. Molti dei colleghi più resistenti al nostro appello gli ho poi visti nei giorni successivi venirci a dare una mano. Grazie, gli ho detto, con un sorriso che spalanca gli occhi, il volto coperto da una mascherina.
Parlo di medici perché questo è il mio mestiere. Accanto a noi, tuttavia, con eguale amore, sforzo, dedizione e generosità si stanno spendendo ed esprimendo tutte le professioni sanitarie: gli infermieri, il personale amministrativo, gli operatori socio sanitari (OSS). Un ospedale è fatto da ognuno di loro, non bisogna mai dimenticarlo.
Ecco cos’è un medico in area COVID-19: un medico che è arrivato al nocciolo della sua professione; dal punto di vista delle conoscenze specifiche poco ci è richiesto per la cura della maggior parte di questi pazienti. Dal punto di vista umano ci è richiesta invece una preparazione estrema. All’università l’anima non ci hanno insegnato a esercitarla. La nostra palestra sono stati i malati, gli affetti, la famiglia, la vita stessa.
“Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή”. “La vita è breve, lunga è l’arte” inizia così l’aforisma più noto di Ippocrate di Kos uno dei padri della nostra arte. Da allora il seme denso e fecondo che ha dato vita alla nostra professione non è mai cambiato.