Caro direttore,
preliminarmente ci corre l’obbligo di esprimere le nostre congratulazioni per l’interessante mensile da lei diretto. Gli argomenti in esso trattati hanno destato da subito la nostra attenzione per la lucida rappresentazione dei contenuti, sempre documentati con onestà intellettuale, libertà di pensiero, oltre che con rigore morale.
Sono proprio queste le linee guida che da sempre contraddistinguono l’operato della nostra associazione politico/culturale A.P.I. (Associazione Progetto Isola) e per le quali ci battiamo quotidianamente in terra di Sicilia, ove siamo nati e dove intendiamo, oltre che rimanere, lottare per migliorarla dando il nostro contributo affinché malaffare, mala giustizia, mala politica, possano avere sempre meno cittadinanza nella nostra splendida isola.
È proprio in ragione di ciò che desideriamo porre all’attenzione sua e dei lettori alcune nostre riflessioni riguardo temi che investono la giustizia, così come la politica, prendendo spunto dalla recente querelle fra il giudice Di Matteo e il guardasigilli Bonafede, ma non solo.
Come non può provocare sgomento ed incredulità la posizione dell’ex Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, giudice Silvana Saguto, ritenuta a capo del “cerchio magico” che gestiva illecitamente i beni sequestrati alla mafia e attualmente sotto processo per truffa aggravata, falso, abuso d’ufficio, corruzione, reati per i quali la Procura di Caltanissetta ha chiesto una condanna a 15 anni; o il caso dell’ex magistrato antimafia Antonio Ingroia, per il quale la Procura di Palermo ha chiesto la condanna a 4 anni per il reato di peculato compiuto dal giudice nella qualità di amministratore unico della società regionale Sicilia e-Servizi spa (oggi Sicilia Digitale spa), avendo la guardia di finanza già posto sotto sequestro i suoi beni per un importo rilevante, vicende tutte che emotivamente ci coinvolgono più da vicino perché trattasi di giudici siciliani sotto processo per reati commessi in terra di Sicilia.
Ancora, ma fuori lo stretto di Sicilia, lo scandalo che ha coinvolto l’ex presidente dell’ANM, Luca Palamara, accusato di corruzione innanzi la Procura di Perugia e oggi tornato alla cronaca per le comunicazione whatsapp intervenute con altro magistrato, Paolo Auriemma, capo della Procura di Viterbo, intercettate.
Nei whatsapp si fa esplicito riferimento al leader di un partito al quale non vengono risparmiati oltre che triviali epiteti, anche l’intenzione di attaccarlo nonostante sia condivisa l’azione politica riguardo la questione dei migranti, per la quale i magistrati arrivano a dire – Salvini è indagato per non aver permesso l’ingresso agli invasori…siamo proprio indifendibili …ha ragione però va attaccato – frasi che lasciano allibiti e danno il senso di una giustizia politicizzata volta a determinare gli equilibri politici del paese. Non vi è dubbio che i soggetti protagonisti di queste pagine oscure della giustizia, aldilà delle risultanze processuali, hanno la responsabilità di alimentare ulteriormente quel corto circuito istituzionale già iniziato nei primi anni ‘90, e che vedono tuttora i due organi costituzionali dello Stato in conflitto. Tali situazioni e altre similari, alla lunga rischiano di minare le fondamenta della tenuta democratica di un paese perché ne distorcono il meccanismo di base, ovvero la fiducia dei cittadini verso le istituzioni.
Altro fatto che ha sconvolto la ”quiete” di fine quarantena, riguarda lo scontro Bonafede/Di Matteo.
Una cosa è certa, se politicamente il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, peraltro siciliano anche lui, è riuscito a superare le due mozioni di sfiducia avanzate dalle opposizioni, lo stesso avrebbe non poche difficoltà a fare altrettanto con le accuse, qualora risultassero veritiere, avanzate dal giudice Di Matteo.
Antonino Di Matteo sostiene che la mancata sua nomina al DAP, proposta inizialmente dallo stesso ministro Bonafede e poi a suo dire dallo stesso rimangiata, deriverebbe dal fatto che i capi mafia al 41 bis, saputo dell’imminente incarico a Di Matteo, si opposero.
Le intercettazioni ambientali di contrarietà da parte dei mafiosi, ascoltate in carcere, furono portate a conoscenza del ministro il quale a quel punto – sempre secondo Di Matteo- fece marcia indietro perché, riferisce testualmente, “il ministro ci aveva ripensato o forse qualcuno lo aveva indotto a ripensarci”, lasciando intendere che la mafia, o chi per lei, avesse avvicinato o semplicemente fatto spaventare il guardasigilli facendolo recedere dall’originale proposito; affermazioni gravissime, che palesano uno scontro senza precedenti fra due istituzioni indipendenti dello Stato.
Appare singolare il comportamento del giudice antimafia Di Matteo. Trattare un caso così importante e muovere accuse così gravi senza avere prove concrete sembra impossibile; in entrambi i casi non possiamo che essere sconcertati proprio perché ci troveremmo di fronte o ad un ministro colluso, la quale cosa ci sembra obbiettivamente difficile credere, o ad un magistrato che si pronuncia con una leggerezza sospetta, potendosi determinare nello specifico la commissione di reati diversi quanto meno quello di calunnia.
Di certo entrambi ne escono un po’ malconci per aver dato alla nazione una narrazione poco edificante, senza precedenti e che mette a nudo le contraddizioni e le lotte di potere che in ultima analisi delegittimano le istituzioni stesse.
Sulla sussistenza di un qualche reato in questa brutta storia crediamo quindi che non vi possa essere alcun dubbio: uno dei due protagonisti la verità non l’ha detta fino in fondo.
Ma aprire un fascicolo e procedere di conseguenza potrebbe servire a poco, venendo a prevalere la ragion di Stato, per cui, così come nella migliore tradizione italiana la vicenda andrebbe a occupare altri spazi fra gli archivi di Stato a futura memoria.
Ma a questo punto ci poniamo una domanda: a quale istituzione dobbiamo affidarci perché sia realmente trasparente, indipendente ed autorevole, perché percepita anche come tale, così da poter combattere fino in fondo e con successo la mafia, senza essere risucchiata e coinvolta nel coacervo delle lotte di potere?
Confidiamo che prima o poi si intraveda una luce all’orizzonte e, in attesa, una cosa sarebbe giusto fare, la modica costituzionale dell’articolo 3, che potrebbe così recitare: “la legge è uguale per tutti, anche se non tutti siamo uguali davanti alla legge”.
Grazie per l’attenzione con molti cordiali saluti
A.P.I. Associazione Progetto Isola “PRESENTE”
Il Presidente Andrea Pinta