Carcere, pandemia e violenze*

L’arrivo della pandemia da Covid-19, a inizio 2020, ha scosso alle fondamenta il nostro sistema penitenziario. Alcune criticità, note da tempo a chi frequenta gli ambienti detentivi, sono emerse con maggiore prepotenza. Tra queste la difficoltà a garantire un pieno accesso al diritto alla salute alle persone detenute. Il che, nel quadro attuale, ha conseguenze importanti anche sulla popolazione libera.

Il carcere è un luogo particolarmente favorevole all’insorgere e al diffondersi delle malattie infettive. Gli istituti di pena versano spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie; il grado di promiscuità, a causa del sovraffollamento endemico, è molto alto; l’accesso ai servizi sanitari da parte della popolazione ristretta è spesso scarso; la popolazione detenuta viene quotidianamente a contatto e con gli agenti e con gli altri operatori che escono ed entrano di continuo dall’istituto. A ciò si aggiunga la maggiore vulnerabilità delle persone detenute, dovuta alle numerose patologie che si portano dietro. La percentuale di persone positive all’Hiv è molto più elevata di quanto non sia all’esterno; lo stesso vale per il tasso di persone affette da tubercolosi, di 20 volte superiore rispetto alla comunità libera; un detenuto su quattro ha problemi di dipendenze dalle droghe o dall’alcool. E via dicendo.

Il carcere è un luogo in cui è alto il rischio che scoppino focolai epidemici. Gli istituti penitenziari sono bombe sanitarie potenziali, che è necessario disinnescare anche al fine di evitare che diventino un ulteriore peso per un sistema sanitario già sotto stress.  

Quello dell’accesso alla salute è solo uno dei nodi critici venuti al pettine durante la pandemia. Tra gli altri vi sono il gap tecnologico tra il dentro e il fuori, e vi è il problema della violenza, che periodicamente emerge in luoghi con una naturale tendenza all’opacità, dove è più difficile individuarne con certezza i responsabili. 

Nel mese di febbraio del 2020, a inizio pandemia, l’Amministrazione penitenziaria, consapevole del rischio pandemico, ha preso provvedimenti drastici, chiudendo le carceri ai contatti con l’esterno. Sono stati sospesi i colloqui con i familiari, le attività scolastiche e gli ingressi dei volontari. Il quotidiano detentivo, per via di una condivisibile azione preventiva, ha finito per svuotarsi di senso. La pena ha perso nel concreto gli elementi che tendono al reinserimento sociale, mantenendo unicamente un carattere afflittivo. In un periodo delicato come quello, la comunicazione dell’amministrazione con le persone ristrette non è stata sufficientemente capillare, né continua. D’altra parte, a fronte dell’interruzione dei colloqui con i familiari, non vi è stata l’implementazione delle telefonate e dei video-colloqui è stata tardiva. Tutto ciò ha amplificato ansia, paura e solitudine. Così nel marzo del 2020 si è arrivati a disordini, proteste e rivolte di una portata inedita. Alcuni – una netta minoranza – si sono caratterizzati per un alto grado di violenza. Vi sono stati danni per svariati milioni di euro. Il risvolto più drammatico è però senz’altro la morte di ben 13 persone ristrette, sulle cui cause vi sono ancora delle indagini in corso. Successivamente alle proteste e alle rivolte pare vi siano stati episodi di violenze, abusi, maltrattamenti e torture messi in atto da agenti di polizia penitenziaria, carabinieri e poliziotti.

Nel mese di marzo Antigone ha ricevuto numerose segnalazioni. Diversi familiari di persone detenute nel carcere di Melfi ci hanno contattato denunciando gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri congiunti nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, alle ore 3 e 30 circa, come punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020, in seguito alle restrizioni dettate dall’emergenza Covid-19. Secondo le nostre ricostruzioni i detenuti sarebbero stati denudati, malmenati, insultati, messi in isolamento. Molti sarebbero stati trasferiti. Ad alcuni di essi sarebbero state fatte firmare delle dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione dei segni e delle ferite riportate sul corpo. In questo come in altri casi, Antigone ha presentato un esposto in Procura.

A Santa Maria Capua Vetere, i detenuti del reparto Nilo, a seguito di una protesta posta in essere il 5 aprile 2020, sarebbero stati vittima di un’azione violenta su larga scala, verificatasi il giorno seguente a una protesta dovuta alla paura del contagio. Le operazioni sarebbero state portate avanti da centinaia di agenti in tenuta antisommossa. Il 20 aprile, dopo numerose segnalazioni da parte dei familiari, Antigone ha depositato un esposto per ipotesi di tortura e percosse compiute dagli agenti e per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento riguardanti dei medici. Attualmente le indagini sono in corso.

Numerose segnalazioni, sempre nel mese di marzo, ci sono giunte da familiari di persone detenute nell’istituto penitenziario milanese di Opera, i quali denunciavano violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri congiunti il 9 marzo 2020, a seguito di una rivolta scoppiata nel primo reparto. Come per gli episodi appena citati, le violenze sarebbero state poste in essere a rivolta finita. Non si tratterebbe dunque di violenze finalizzate a sedare rivolte in corso, ma di azioni di carattere punitivo.  Il 18 marzo Antigone ha depositato un esposto per ipotesi di abusi, violenze e torture. Le indagini sono in corso.

Episodi analoghi hanno riguardato altri istituti di pena. Si tratta comunque di una minoranza di istituti, su cui è necessario che le autorità inquirenti e giudicanti facciano luce. E tuttavia ciò ci mette di fronte al problema delle violenze in carcere: un problema antico, la cui difficile risoluzione è conseguenza, tra le altre cose, del grado chiusura e opacità che spesso caratterizza il carcere, e che impedisce il perseguimento della verità giudiziaria. Un problema che è più grave quando a commettere violenza siano gli agenti di polizia penitenziaria, ovvero i tutori della legge, coloro che hanno la responsabilità della custodia delle persone detenute. Si tratta, come già detto, di casi minoritari, ma non per questo meno gravi, e che la legge sulla tortura, introdotta solo nel 2017 nel nostro ordinamento, aiuta a combattere, laddove prima con una certa frequenza cadevano nell’oblio, e in molti casi non riuscivano a emergere.

Il 26 novembre 2020 si è conclusa, presso il Tribunale di Siena, l’udienza preliminare per le violenze verso un detenuto che sarebbero state commesse nel carcere di San Gimignano nell’ottobre del 2018. Cinque agenti penitenziari sono stati rinviati a giudizio. Tra le accuse di cui dovranno rispondere c’è anche quella di tortura. Durante la stessa udienza un medico del carcere, che aveva scelto il rito abbreviato, è stato condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio, per non aver visitato e refertato la vittima. Antigone, a dicembre 2019, aveva presentato un esposto nel quale chiedeva che si configurasse il reato di tortura a carico degli agenti.  Per la prima volta un medico è stato condannato per essersi rifiutato di refertare un detenuto che denunciava di aver subito violenze. Si tratta di un precedente che potrebbe aiutare a scardinare il muro di complicità che a volte rischia di crearsi in casi simili.

Il 15 gennaio 2021, per la prima volta, un funzionario pubblico è stato condannato per delitto di tortura, a causa delle violenze commesse nei confronti di un detenuto nel carcere di Ferrara. La sentenza, di primo grado, ha assunto un valore storico. Se in passato fatti del genere cadevano nell’oblio, la giustizia italiana è riuscita a mostrare la sua capacità di tutela dei più indifesi, l’indisponibilità a tollerare che qualcuno possa porsi al di sopra di essa. Si è trattato di una decisione che ha protetto e tutelato in primis tutti gli agenti di polizia penitenziaria che si muovono nel solco della legalità, ovvero la stragrande maggioranza di essi.

Si tratta di episodi ed evoluzioni interne al nostro sistema giuridico estranee alla pandemia in corso. Tuttavia, la pandemia ha fatto emergere, da un lato, alcuni fattori che favoriscono la degradazione dell’ambiente detentivo e, dunque, le tensioni e le violenze che ne conseguono e, dall’altro, dei gravissimi episodi di violenza su cui è necessario che le autorità facciano luce. L’occasione andrebbe colta per intervenire finalmente e in maniera incisiva su elementi strutturali che siano in grado di dare alla pena l’orientamento che la Costituzione le assegna.

Claudio Paterniti Martello
Associazione Antigone

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(*) Antigone, associazione politico-culturale, a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. Antigone promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla sua evoluzione; raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria; cura la predisposizione di proposte di legge; promuove campagne di informazione e di sensibilizzazione su temi o aspetti particolari, comunque attinenti all’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese, anche attraverso la pubblicazione del quadrimestrale Antigone. Dal 1998 Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 Istituti penitenziari italiani.

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