L’attenzione degli Stati Uniti verso la Cina comporta una serie di aggiustamenti geostrategici, non potendo Washington esplicare dovunque e in ugual misura la stessa diretta proiezione. Da anni è in atto il suo disimpegno dal Mediterraneo, dove oggi la superpotenza evita di reprimere l’attivismo turco – sebbene Ankara, membro dell’Alleanza Atlantica, stabilisca accordi con la Russia e con la stessa Cina in tema di difesa o di economia – perché vede comunque nella Turchia un argine alle ambizioni mediterranee di Mosca. La creazione di un raggruppamento navale nell’Oceano Indiano con Gran Bretagna e Australia, che si avvale anche di un’imponente fornitura americana a Canberra di sottomarini a trazione nucleare di ultima generazione, segna del resto, almeno per ora, un’attenuazione d’interesse per il tradizionale legame transatlantico con l’Europa, che è invece alla base dell’omonima Alleanza e della NATO. Il riposizionamento statunitense passa anche per il tentativo di stabilizzare l’area del Golfo al fine di ridimensionarvi il proprio diretto impegno. L’auspicata stabilizzazione passa per un complesso intrigo di fattori, fra i quali spiccano i rapporti fra Israele e quegli stati arabi, la guerra nello Yemen, la questione nucleare iraniana e la politica egemonica di Teheran.
Sotto la spinta di Washington, la regione è in movimento grazie anche ai cosiddetti “Accordi di Abramo”, che stabiliscono la cooperazione strategica fra Israele e i Paesi del Golfo. Finora vi hanno aderito formalmente solo Emirati Arabi Uniti e Bahrain, ma informalmente le intese fra Tel Aviv e Riad sono cominciate già da qualche anno. Gli “Accordi” puntano al venir meno della retorica antisraeliana, che ha caratterizzato a lungo la politica dei Paesi del Golfo, ma sono soprattutto finalizzati alla creazione di un fronte comune per il contenimento delle politiche intrusive dell’Iran in vari Paesi del Medio Oriente (Libano, Siria, Iraq) e dello stesso Golfo (Yemen, Bahrain, regioni orientali dell’Arabia Saudita). Gli “Accordi” promuovono quindi il consolidamento del fronte anti-iraniano dei Paesi della Penisola Araba e impongono una reinterpretazione dello storico rapporto di Riad con gli Stati Uniti.
Nel quadro illustrato, lo stesso Presidente Biden auspica da tempo la fine della guerra nello Yemen. La possibile conclusione del conflitto, nel quale l’Iran supporta i ribelli houti contro i quali combatte la coalizione guidata da Riad, sarà un grande passo per la normalizzazione dei rapporti saudo-iraniani. D’altro canto, proprio il miglioramento dei rapporti tra i due grandi protagonisti del Golfo potrà essere elemento importante per la cessazione del conflitto nello Yemen, che logora sia Riad che Teheran. I due Paesi hanno avviato un dialogo cooperativo inteso a una relazione non conflittuale e hanno reciprocamente riaperto sedi consolari dopo la rottura delle relazioni diplomatiche del 2016. L’Arabia Saudita si gioverebbe di una soluzione “salvafaccia”, che un’accorta politica americana e gli “Accordi di Abramo” potrebbero certamente favorire e l’Iran potrebbe ottenere di riflesso altri vantaggi. La connessione iraniana nella complessa azione risiede infatti nella ripresa dei negoziati sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA). Approfittando anche dell’esigenza iraniana di un alleviamento delle sanzioni, Washington punta al contenimento del programma nucleare di Teheran, alla cessazione delle politiche destabilizzatrici nell’area e all’interruzione del sostegno agli houti. Si tratta di una trattativa in evoluzione e non priva di difficoltà, che potrebbe tuttavia contribuire a ridisegnare i rapporti in un’ampia zona del Medio Oriente, incidendo sulle relazioni dell’area con gli Stati Uniti e con altre grandi potenze, come la Cina e la Russia.
Sulla labile e complessa costruzione degli scenari sopra delineati, piombano i recentissimi eventi afghani. Il ritiro statunitense era da tempo deciso, ma il senso di fallimento della missione militare a guida di Washington in Afghanistan è emerso dallo sfaldamento pressoché immediato delle strutture militari, politiche e sociali che si era cercato di edificare nel corso degli ultimi vent’anni in quel Paese; sfaldamento che scredita sensibilmente gli USA nel ruolo di grande agente internazionale e di presunto regolatore di importanti crisi geopolitiche. Questa ferita all’immagine e all’affidabilità di Washington potrebbe incrinarne la capacità di regista nella rimodulazione degli equilibri fra Iran, Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo e del Medio Oriente. L’Afghanistan, che apre una rinnovata potenziale instabilità nell’area, rischia fra l’altro di attrarre l’attenzione proprio dei due grandi protagonisti del Golfo: per diversi motivi di esercizio di influenza o di timori di instabilità, Riad e Teheran potrebbero trovarsi nuovamente contrapposti nella regione e ciò nuocerebbe al dialogo in corso.
In tale scenario il conflitto nello Yemen promette di rivelarsi molto meno marginale di quanto possa sembrare. Epitome e arco di volta della rivalità saudo-iraniana, esso assume una doppia valenza: di fattore di dialogo, se la guerra si conclude; beneficiario dello stesso dialogo, se questo prosegue efficacemente nella ricerca di normalizzazione. Tenendo però presente che anche se l’Arabia Saudita e la coalizione da lei guidata si ritirassero dalla guerra dopo una pace con gli houti, non necessariamente e non immediatamente lo Yemen sarebbe pacificato. Infatti, benché percepito dai più come una guerra per procura fra i due giganti del Golfo, il conflitto nasce anche da cause interne al Paese radicate nella sua storia antica e recente, dove si confrontano una visione primordiale e tradizionale dello Yemen storico con il suo sviluppo più moderno, la visione unitaria con quella della non lontana separazione fra nord e sud, l’identità statuale con quella tribale, sempre influente nel Paese, il confronto delle istituzioni con la perdurante minaccia di Al Qaeda e Isis. Temi che però non contraddicono la centralità geopolitica di una crisi e di un Paese solo apparentemente periferici, in cui si proiettano interessi di molte potenze regionali, che incidono in un’area di importanza cruciale per gli equilibri e i commerci mondiali e dove si affacciano anche le instabilità del Corno d’Africa.