Non serve un nonno al Quirinale, ma un supermario a Palazzo Chigi

Sei mesi fa il nostro spread si muoveva, nonostante tutto, intorno ai 100 punti; negli ultimi 2 mesi ha iniziato invece a salire posizionandosi stabilmente nel territorio compreso tra quota 130 e quota 150. Contemporaneamente, le grandi banche di investimenti quali JP Morgan ed i grandi fondi come BlackRock hanno acceso un forte riflettore sull’evoluzione della situazione italiana. Il punto delicato è che il motivo di questa morbosa attenzione da parte di investitori istituzionali non deriva da rallentamenti del nostro PIL come avveniva regolarmente in passato. Anzi, l’indice PMI (Purchasing Managers Index) relativo al settore manifatturiero si è mantenuto, anche a dicembre, a livelli record (62 punti), ben al di sopra della media europea (58 punti). Giova ricordare che lo spartiacque tra recessione ed espansione è fissato, nell’indice in esame, a quota 50. Oltretutto, l’accensione dei citati riflettori sull’Italia non dipende neanche esclusivamente dal risveglio dell’inflazione e dalla brusca impennata della bolletta energetica. Tanto è vero che, nonostante la Spagna condivida con noi queste stesse problematiche, lo spread sui Bonos a 10 anni continua a navigare tra i 70 e i 90 punti. E, allora, bisogna prendere atto che il vero motivo che ha fatto suonare gli allarmi nei grattacieli e nelle sale cambi di mezzo mondo ha un nome: “incertezza da Quirinale”. Ed il quesito che aleggia sullo sfondo di questo clima di incertezza è sempre lo stesso: l’Italia può davvero permettersi il lusso di mandare Draghi al Quirinale allontanandolo dalla regia proprio nella delicatissima fase della messa a terra del PNRR? La laconica risposta è NO, l’Italia non può assolutamente concedersi questo lusso per tutta una serie di motivi di ordine politico ed economico. Innanzitutto, bisogna chiarire che, nel messaggio di fine anno, Draghi non ha affatto detto che, avendo l’Italia vinto la sfida del PNRR, il suo ruolo di regista possa considerarsi superato. Draghi ha semplicemente detto che i 51 obiettivi previsti per il 2021 sono stati raggiunti e che, nonostante il percorso sia lungo, non si intravedono al momento fattori in grado di mettere a rischio il raggiungimento dei prossimi target. E, al di là delle interpretazioni di parte, ha ovviamente ribadito che spetterà al Parlamento decidere chi guiderà l’attuazione del PNRR fino al 2026. Dunque, è fondamentale convincersi che la partita relativa all’utilizzo dei fondi del Next Generation UE è appena incominciata. Ad oggi siamo ancora in una fase “qualitativa” fatta di individuazione di priorità, di elaborazione di macroprogrammi, di riforme basate su leggi delega. Ma entro breve entreremo in una fase “quantitativa” nella quale i progetti enunciati dovranno concretizzarsi e le leggi delega dovranno trovare riscontro in adeguati decreti attuativi. Semplificando, per ora abbiamo detto che porteremo l’alta velocità al Sud, nei prossimi anni bisognerà portarci anche i treni. E, soprattutto, bisognerà passare sotto i riflettori dei Popoli del Nord che, avendo potenzialmente stanziato per l’Italia circa 70 mld a fondo perduto, esamineranno con la lente di ingrandimento il superamento dei 500 step intermedi che dovremo affrontare da qui al 2026. Ad esempio, il 2022 sarà già molto più impegnativo dell’anno passato: 23 leggi e 43 atti normativi da varare (più di 5 al mese) per ottenere l’erogazione di 2 rate per complessivi 40 mld. E il solo pensare che questo colossale piano, che va a toccare tutti i gangli dell’apparato centrale, regionale e locale possa andare a buon fine senza la regia politica ed operativa di un Mario Draghi asceso al Colle appare piuttosto utopistico. O, quantomeno esporrebbe l’Italia al rischio inaccettabile di perdere un’occasione assolutamente irripetibile. Infatti, non dovremmo mai scordarci che, qualora riuscissimo ad utilizzare in maniera strutturale i 200 mld di fondi comunitari, avremmo finalmente l’occasione di scrollarci di dosso quegli atavici fardelli (scarsa produttività, elevato costo del lavoro, aberrante burocrazia, divario Nord-Sud, etc), che da sempre costringono a muoverci faticosamente lungo una curva di crescita asfittica. Una curva, oltretutto, caratterizzata dalla tendenza ad abbattersi più pesantemente rispetto a quella degli altri paesi europei nei momenti di recessione e a reagire, per converso, in maniera assai insoddisfacente nei momenti di vacche grasse.

Ma, soprattutto, deve essere ben chiaro che, qualora invece il cambio di regia a Palazzo Chigi aprisse una stagione di lotte intestine e di fibrillazioni politico-elettorali in grado di impedire il varo di riforme strutturali e la corretta messa a terra del PNRR, si avrebbero due conseguenze. La prima è che aumenterebbe a dismisura il gap tra l’Italia ed i Paesi che fossero riusciti a utilizzare al meglio i fondi comunitari del Next Generation UE. La seconda è che il “debito buono” (ossia destinato a investimenti strutturali nella fase post pandemica) si trasformerebbe, come per incanto, in “debito cattivo” facendoci scoppiare in mano come un petardo il fardello di debito pubblico lievitato ad oltre 2700 mld a causa della pestilenza.

E allora, alla fine dei conti, è forse meglio per tutti che Mario Draghi rimanga tranquillamente a Palazzo Chigi a occuparsi del Paese.

Andrea Ferretti

Economista, docente al corso di economia delle imprese familiari – Univerona

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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