40 anni della legge Rognoni-La Torre.
L’intuizione originaria

Tra gli strumenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata importanza fondamentale ricopre l’azione condotta sul versante economico-finanziario che mira a colpire l’accumulazione dei capitali illeciti e la possibilità di riciclarli attraverso investimenti nel circuito legale.

Individuare, attraverso le indagini patrimoniali, i canali che consentono alle organizzazioni criminali di reinvestire i proventi delle attività illecite, significa ostacolare la loro capacità di consolidare redditi e potere.

L’utilizzo degli strumenti ablatori previsti dall’ordinamento tende infatti ad impedire alla criminalità organizzata che i beni di origine illecita entrino nel circuito dell’economia legale. È infatti attraverso il reinvestimento dei capitali e la diversificazione delle attività che l’organizzazione moltiplica i propri redditi e patrimoni, rafforzando la sua capacità imprenditoriale fino a confondere la sua economia con quella legale.

Nel corso degli anni 60/70 si passa infatti da una mafia “rurale” ad una mafia “imprenditoriale”: non è più semplicemente la mafia delle estorsioni e dei sequestri ma opera, con il sostegno della politica locale, talvolta anche nazionale, nel campo dell’edilizia e dei lavori pubblici.

Si delinea così la necessità di sviluppare tecniche di indagine in grado di individuare il fenomeno mafioso dentroil sistema, seguendo il flusso di denaro che si genera dalle attività mafiose e che con l’aiuto di soggetti “terzi” – imprenditori e professionisti compiacenti – consentono all’organizzazione di “celarsi” in attività lecite.

Le difficoltà di identificazione e repressione delle attività in tal modo svolte dalle organizzazioni criminali crescono in modo proporzionale alla capacità che queste hanno di avvalersi di una rete di connivenze e complicità di elevata “professionalità”.

Peraltro la mole delle risorse finanziarie di cui l’impresa criminale può disporre, oltre ad autofinanziare la stessa, altera il mercato legale con fenomeni di concorrenza sleale: l’impresa malavitosa può non ricorrere al sistema creditizio bancario, solitamente non assolve agli oneri assicurativi e previdenziali, anche se la previsione dell’obbligo del DURC per partecipare alle gare pubbliche ha ridotto sensibilmente questo tipo di “vantaggio” rispetto alle imprese “legali”.

La previsione e l’utilizzo degli strumenti di carattere preventivo, delineati nella legge n. 646 del 13.09.1982, nota come legge “Rognoni-La Torre”, sono stati dunque una risposta dell’ordinamento alle mutate modalità operative delle organizzazioni mafiose.

La legge citata prevede misure di prevenzione patrimoniale quali il sequestro e la confisca di beni illecitamente acquisiti, direttamente od indirettamente, dai destinatari di misure di prevenzione personali previste dalla legge n. 575/1965, ossia indiziatidi appartenenza ad associazioni di stampo mafioso. Nel prevedere ciò, il legislatore ha introdotto nel codice penale il reato di cui all’art. 416 bis, dando finalmente la definizione di associazione di tipo mafioso, dopo anni di vivace dibattito dottrinale e contrasti giurisprudenziali sul punto.

Il convincimento sulla necessità di colpire la criminalità organizzata colpendone i patrimoni e le disponibilità finanziarie si fa strada già negli anni precedenti alla proposta di legge dell’onorevole Pio La Torre, quando questi faceva parte, insieme al giudice Cesare Terranova, della Commissione parlamentare Antimafia nella VI legislatura. I due furono firmatari – insieme ai deputati Gianfilippo Benedetti e Alberto Malagugini ed ai senatori Giulio Adamoli, Gerardo Chiaromonte, Francesco Lugnano e Roberto Maffioletti – della Relazione di minoranza della Commissione.

La Relazione, datata 4 febbraio 1976, contiene già le premesse della proposta di legge di Pio La Torre sul reato di associazione mafiosa ed è anche il primo rapporto che, partendo dalle origini della mafia in Sicilia, svela le trame fra mafia e politica, in netta contrapposizione con il contenuto della Relazione di maggioranza, apertamente criticata per aver omesso di evidenziare il rapporto di “compenetrazione tra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello stato come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)”, come da Relazione di minoranza Commissione parlamentare di inchiesta al fenomeno della mafia in Sicilia – VI legislatura.

Si parte dalla mafia agraria e dalla strage di Portella della Ginestra, per arrivare al “sacco edilizio” di Palermo, i grandi appalti monopolizzati per decenni, con il supporto della politica, da imprese legate alla criminalità organizzata; si fanno i nomi ed i cognomi di ministri, politici ed imprenditori legati in vario modo alle cosche, avvocati, notai; si focalizzano operazioni di carattere finanziario realizzate illecitamente, speculazioni e si elencano le operazioni di investimento, specificandone il valore, portate a termine con i proventi degli illeciti. Ed altro ancora.

Un documento importante perché costituisce la base per l’elaborazione da parte di Pio La Torre e di Cesare Terranova, del reato di associazione di stampo mafioso e della legge sul sequestro dei beni approvata nel settembre del 1982.

Prima dell’entrata in vigore di questa legge il più delle volte venivano pronunciate sentenze di assoluzione per insufficienza di prove poiché la più generica fattispecie prevista dall’art. 416 c.p. – associazione a delinquere – non consentiva di individuare facilmente la condotta associativa con lo scopo appunto di realizzare attività di tipo “mafioso”. Necessitava dunque estendere la punibilità anche alle condotte, di per sé formalmente lecite o non connotate dalla volontà di realizzare singole fattispecie criminose, non rientranti nella previsione dell’art. 416 c.p.

Dell’associazione di tipo mafioso vengono dunque delineati per la prima volta dalla citata legge i metodi operativi, costituiti dalla “forza d’intimidazione del vincolo associativo” e dalla “condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva”, i fini delittuosi, non limitati alla generica commissione di più delitti, bensì volti all’infiltrazione nel tessuto economico, politico e della Pubblica Amministrazione.

È evidente l’effetto dirompente che la legge Rognoni – La Torre ha avuto sul sistema criminale mafioso, considerando anche l’ampliamento che dalla legge deriva dei poteri coercitivi e di indagine del giudice e della polizia giudiziaria in conseguenza dell’applicazione delle disposizioni in materia di misure di prevenzione.

Possono difatti svolgersi indagini sul tenore di vita, sulle disponibilità finanziarie, sul patrimonio e sull’attività economica non solo dei soggetti indiziatidi appartenenza all’associazione mafiosa ma anche del coniuge, dei figli, conviventi e dei soggetti, persone fisiche o giuridiche, di cui l’indiziatopossadisporre, direttamente od indirettamente, di beni e patrimoni.

Ma se gli accertamenti patrimoniali in prevenzione finalizzati all’applicazione delle misure ablatorie su beni, patrimoni e attività degli indiziati o a questi collegati sono stati e sono tuttora un punto di forza della lotta alla criminalità organizzata, per la stessa ragione va posta molta attenzione al sistema delle interdittive, essendo sufficiente la presunzione di pericolosità sociale per la loro applicazione, prima che sia pronunciata la sentenza penale di condanna.

Tendere alla realizzazione del “giusto equilibrio tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo” (art. 1 CEDU), è certo un criterio da tenere sempre a guida.

Vanificare però l’efficacia della legge in punto di applicazione delle misure di prevenzione, depotenziando od addirittura eliminando la possibilità di applicarle prima dell’intervento della sentenza di condanna, vanificherebbe tutto il lavoro svolto finora, il prezzo pagato con la vita di chi ne è stato il fautore – sia l’onorevole Pio La Torre che il giudice Cesare Terranova sono stati uccisi dalla mafia – e gli innegabili successi alla lotta alle mafie conseguenti al sistema introdotto.

Altra problematica collegata all’applicazione delle misure di prevenzione attiene alla gestione di quanto sequestrato e confiscato alla criminalità organizzata. Beni ed attività di varia natura sottratti alle cosche sono confluiti allo Stato, con oneri di gestione e mantenimento. Lo scopo finale è quello di convertire l’utilizzo di tali beni a finalità sociali e pubbliche e, con riferimento alle attività imprenditoriali, di “risanare” e reimmettere l’impresa nel circuito economico legale, attraverso la nomina di un amministratore giudiziario che ne assuma la gestione. La realtà dei fatti ha però dimostrato che se in un gran numero di casi l’intento è stato felicemente raggiunto – immobili confiscati sono divenuti sedi di librerie, biblioteche, centro studi, mostre artistiche, centri musicali, aziende agricole – in altri casi non si è riusciti a realizzare un percorso ottimale dal momento del sequestro fino alla destinazione di detti beni e attività. Pesano certamente i costi di una gestione “pulita”, con lavoratori pagati regolarmente, assicurazioni, tributi: gli amministratori giudiziari non dispongono delle risorse per affrontare i costi di manutenzione e gestione, sono a loro richieste delicate attività di gestione – oltre a valutazioni in ordine al possibile rilancio dell’impresa – che presuppongono un elevato grado di professionalità. Ma la professionalità richiede anche un adeguato compenso, se si vuole scongiurare la “fuga” dei professionisti più qualificati verso le attività private.

A distanza di quarant’anni dall’emanazione della legge Rognoni – La Torre, questa, grazie anche alle modifiche introdotte nel tempo, costituisce ancora uno degli strumenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata, a riprova di come le analisi compitamente svolte da Pio La Torre e Cesare Terranova, cristallizzate nella relazione parlamentare di minoranza della Commissione antimafia del 1976, siano ancora valide.

Vincenzo Terranova

Presidente della Corte d'assise di Palermo

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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