L’inizio del secondo decennio del XXI secolo ha segnato una svolta nella relazione fra le persone e le arti. Una svolta sicuramente quantitativa, perché i pubblici si sono ampliati e diversificati, tuttavia guidata dalla necessità e dal bisogno di popolare la propria vita di attimi di magia, di sospensione e di evasione dalla luttuosa e angosciosa quotidianità che la pandemia prospettava.
Ciò è stato favorito dalla circostanza che la cultura e lo spettacolo si sono trovate di fronte alla necessità di rispondere ad un momento di crisi economica e più in generale di collasso organizzativo, al quale hanno provato a reagire inventando delle nuove modalità di incontrare il pubblico. Ma i tentativi e gli esperimenti realizzati da musei, teatri, compagnie, orchestre e artisti hanno avuto fortuna perché hanno trovato in quel bisogno e in quella necessità delle persone un terreno fertile da coltivare, una prateria di possibilità prima inimmaginabili. Hanno trovato esseri umani, che prima della pandemia avevano relazioni molto labili o addirittura inesistenti con le arti, lo spettacolo e la cultura in generale, improvvisamente ricettivi e vitalmente bisognosi di qualcosa che non li facesse affogare nel dolore e nella disperazione, nella noia e nel nulla.
La saldatura di questi due elementi, l’incontro di due necessità diversissime nelle motivazioni, ma accomunate dall’obbligo di sopravvivenza, costituisce l’elemento di vero interesse, molto più delle innovazioni sperimentate dal mondo dell’arte e dello spettacolo, che alla fine sono state importanti soprattutto per le conseguenze che hanno avuto sul rinnovamento del settore.
Lo ricordiamo tutti cosa è accaduto: le persone non potevano muoversi di casa per andare nei teatri, nei cinema e nei musei, e così questi ultimi, attanagliati dalla paura del fallimento, sono andati dalle persone, scegliendo modalità diverse, inventando forme nuove di intrattenimento e usando canali diversi da quelli abituali per raggiungerle. Molti musei hanno inventato visite guidate on line e a distanza nelle mostre e nelle collezioni; altri hanno puntato sull’educazione e la formazione con una chiave di intrattenimento. Molti teatri hanno trasformato i propri palcoscenici in centri dove sperimentare modi nuovi di mettere in scena drammi e commedie o di fare concerti, portandoli direttamente nelle case attraverso media digitali. Altri ancora, dopo il primo lockdown, hanno scelto la strada, andando nei cortili e sotto i balconi a fare musica o a recitare, in alcuni casi addirittura su “ordinazione”. Il cinema stesso, la meno “live” delle arti dello spettacolo e già normalmente abituato nella propria normalità prepandemica a raggiungere i pubblici anche attraverso la tv o le piattaforme, ha moltiplicato i canali on line.
Tuttavia, nonostante la leva fosse il sostentamento del settore, i risultati economici soprattutto per i teatri, la musica e i musei, sono stati minimi, poco significativi, ma la fruizione da parte delle persone è aumentata a dismisura trovando grande accoglienza soprattutto da parte di quei pubblici, che prima della pandemia non erano abituati a fruire arte, cultura e spettacolo.
Per il settore dell’arte, della cultura e dello spettacolo la crisi economica è rimasta ed ha assunto dimensioni rovinose, nonostante gli aiuti e i ristori dello Stato. Ma la crisi è servita, perché ha fatto capire quanto quei settori fossero avvinghiati e aggrappati con le unghie a forme e modalità, sia espressive che nella relazione con i pubblici, che si sono rivelate fragili, antiche, inadeguate, nonostante si pensasse, quasi religiosamente, che fossero le uniche possibili. È servito a dare impulso nuovo al settore, a rinnovarlo, a dargli una scossa in grado di catapultarlo nel XXI secolo, sradicandolo dall’equivoco dell’immutabilità dei propri format.
Ma per le persone tutto questo, invece, ha assunto le dimensioni di una piccola catastrofe, perché abbattendosi in maniera così massiccia su una quotidianità angosciante e terribile, ha generato uno squarcio in quella quotidianità, ha aperto una voragine dentro la quale tuffarsi per ritrovare la vita, abbandonandosi al sogno, rincorrendo e vivendo storie, trovando nella fantasia e nel racconto la ragione stessa di sopravvivenza.
Perché questa crisi ha pienamente rivelato il segreto della potenza delle arti, soprattutto a tutti coloro, ossia la maggioranza degli esseri umani, che le arti e la cultura non le frequentavano tanto.
Ha rivelato a tutti che le storie raccontate nei libri e nei film o recitate nei teatri, che le musiche suonate nei dischi e sui palcoscenici, che le immagini rappresentate nei quadri e immortalate nelle statue in esposizione nei musei non sono cose complicate o vecchie o destinate a pochi, ma sono invece la chiave per trovare il respiro vitale, per dare un senso alle nostre vite, per offrire a chiunque la possibilità di essere altro da sé, anche se solo per un attimo, per ravvivare la propria capacità di “sentire” il mondo e gli altri esseri umani.
Nel momento più cupo che l’umanità ha vissuto da molti anni a questa parte, quelle che sembravano cose noiose, difficili o addirittura inutili hanno rappresentato l’unica forma di resistenza possibile, l’unica forza capace di ergersi oltre l’angoscia e il dolore. E il fatto che lo abbiano capito tantissimi di coloro che invece le ritenevano inutili e noiose e che oggi, quando tutto sembra tornato normale o quasi, non le vogliano più abbandonare, è la prova più forte che di quella straordinaria potenza immaginifica le nostre vite, le nostre anime, i nostri sentimenti non possono proprio farne a meno.
Ed è qui, in questa non banale circostanza, che fra arti e persone è nata una relazione nuova, quella che forse, definitivamente, scardinerà l’idea elitaria della cultura per pochi ed eletti.