Con un consenso quasi plebiscitario dopo un Conclave rapidissimo, il più breve del Novecento, durato appena ventisei ore, il 26 agosto 1978 Albino Luciani saliva al Soglio di Pietro. O meglio vi discendeva, come Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del servizio voluto da Cristo, se nell’agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità».
Un dispaccio riservato del Dipartimento di Stato americano aveva subito rilevato la nota caratterizzante di quella elezione: la rapidità. E, in quella rapidità, l’addetto dell’ambasciata statunitense a Roma non vi leggeva che «la convergente volontà del Collegio dei cardinali di dimostrare unità», un’unità che veniva «ribadita anche dallo stesso neoeletto» nell’inedita scelta di unire i nomi dei due predecessori: Giovanni Paolo. Unità che certamente intendeva coniugare, nella volontà di slancio, il «balzo innanzi» di un’eredità comune: quella del Concilio.
Non fu dunque senza significato quella convergenza massiccia e spontanea dei centoundici elettori, per la maggior parte dei quali si trattava della prima esperienza di Conclave, e che non parevano disposti a sbrigare solo un “cambio della guardia”. Come osservava lo storico Gabriele De Rosa, quella di Luciani non era infatti «una scelta improvvisa, essa è arrivata come frutto di più lontana e attenta riflessione, forse già prima della scomparsa di Paolo VI». Quanto basta per dire che quella scelta era stata espressione di una comune mentalità ecclesiale. Se il Conclave che elesse il Successore di Paolo VI è stato il primo dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II, quell’elezione voleva significare la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. I cardinali avevano mirato pertanto alla virtù dirimente della pastoralità. Luciani non venne scelto per essere un pastore, ma perché lo era. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il suo valore, riconosciuto da tempo, era tutto nella sua fisionomia incentrata sull’essenziale. Era il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva.
La storia di Albino Luciani è quella di un vescovo esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti che vivono fuori dall’opulenza, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi nova et vetera. Il suo magistero è attuale. Prossimità, umiltà, semplicità, insistenza sulla misericordia di Dio, amore del prossimo e solidarietà ne sono i tratti salienti. E se il Concilio voleva essere «un segno della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea Gaudet Mater Ecclesia – ed effettivamente è stata la sede in cui la Chiesa ha scelto la “medicina della misericordia” –, era stato eletto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente in pratica, con coraggio perseverante, le direttive. Anzi le incarnava. Naturaliter et simpliciter. In primis nella povertà, che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote, e nell’essere propter homines, nella ferialità evangelica. Nel messaggio Urbi et orbi, pronunciato il 27 agosto 1978, la rotta non solo del suo pontificato si delineava con chiarezza nei sei programmatici «Vogliamo». «Volumnos» nei quali, a più riprese, dichiarava in ogni modo di continuare l’attuazione del Vaticano II. Nel suo breve pontificato ha così fatto progredire la Chiesa lungo le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle sorgenti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, la collegialità episcopale, il servizio nella povertà ecclesiale, la ricerca dell’unità dei cristiani, il dialogo interreligioso, il dialogo con la contemporaneità e il dialogo internazionale, condotto con perseveranza e determinazione, in favore della giustizia e della pace.
Ognuna di queste priorità ha perciò scandito i gesti e le parole dei trentaquattro giorni di pontificato, come frutto di un lavoro da tempo cominciato e attraverso un magistero inauditamente suadente e attrattivo, piantato nella radicale scelta teologica di un linguaggio semplice, conversevole e accessibile, di quel sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Ed è sul filo diretto di queste priorità, che il più geniale dei papi del Novecento, rovesciata la pietra della morte, si ricongiunge al presente. La prospettiva segnata dal suo breve pontificato non è stata una parentesi. Seppure il governo della Chiesa di Giovanni Paolo I non poté dispiegarsi nella storia, tuttavia egli ha concorso a rafforzare il disegno di una Chiesa vicina al dolore della gente e alla sua sete di carità.
In continuità con Giovanni XXIII e Paolo VI, Giovanni Paolo I ha illustrato il contributo che la Chiesa può dare alla costruzione di un’umanità fondata sulla fratellanza: sia a livello internazionale, collaborando alla ricerca delle migliori soluzioni per la pace, la giustizia, lo sviluppo, il disarmo e i soccorsi umanitari, sia a livello pastorale, collaborando nella formazione delle coscienze dei fedeli e di tutti gli uomini di buona volontà. Il 4 settembre 1978, ricevendo gli oltre cento rappresentanti delle missioni internazionali, aveva sottolineato: “Il nostro cuore è aperto a tutti i popoli, a tutte le culture e a tutte le razze” e aveva affermato: “Non abbiamo, certo, soluzioni miracolistiche per i grandi problemi mondiali, possiamo tuttavia dare qualcosa di molto prezioso: uno spirito che aiuti a sciogliere questi problemi e li collochi nella dimensione essenziale, quella dell’apertura ai valori della carità universale… perché la Chiesa, umile messaggera del Vangelo a tutti i popoli della terra, possa contribuire a creare un clima di giustizia, fratellanza, solidarietà e di speranza senza la quale il mondo non può vivere”. Bastano queste limpide e basilari considerazioni pronunciate quarantaquattro anni fa da un Papa per soli trentaquattro giorni al Soglio di Pietro per riflettere sulla stringente attualità del suo messaggio che lo affratella a quello dell’attuale Vescovo di Roma. E quanto sia stato un gesto importante l’istituzione da parte di papa Francesco, il 17 febbraio 2020, di una Fondazione Vaticana dedicata a Giovanni Paolo I affinché la sua eredità teologica, culturale e spirituale possa essere pienamente ripresa e studiata. Perché Giovanni Paolo I è stato e rimane un riferimento inalienabile nella storia della Chiesa.