Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, lo scorso 20 giugno è giunta al traguardo la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura promessa dal Governo all’inizio della Legislatura (l. 17 giugno 2022, n. 71).
Da non confondere con quella chiesta dall’Europa, già varata in precedenza (l. 27 settembre 2021, n. 134, in G.U. n. 237 del 4 ottobre 2021), questa è la riforma imposta dalle specifiche vicende italiche della c.d. “politicizzazione” della magistratura.
Un fenomeno incompatibile col disegno costituzionale di una giurisdizione non politica e a stretta legalità, che ha comportato varie e gravi distorsioni del sistema.
Prima tra tutte la degenerazione correntizia del c.d. “autogoverno” della magistratura, ossia la sua gestione secondo scelte sistematicamente basate sull’appartenenza e sul compromesso spartitorio nonché, più in generale, secondo valutazioni contingenti di convenienza e opportunità, variabili in funzione degli interessi partitici di volta in volta preminenti.
Da qui l’esigenza di intervenire – come si legge nella relazione di accompagnamento al d.d.l. del 28 settembre 2020 a firma dell’allora Ministro della Giustizia Bonafede – “al fine, soprattutto, di rendere la carriera dei magistrati più trasparente e di attuare il precetto costituzionale che vuole i magistrati distinti tra loro solo per funzioni”; di regolamentare “la delicata tematica dell’accesso dei magistrati all’attività politica e del ritorno degli stessi all’attività giudiziaria”; di procedere a “profonda revisione del sistema elettorale dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura e delle modalità di funzionamento del medesimo organo, che ha mostrato di recente tutta la sua urgenza con l’emergere del fenomeno, patologico e distorsivo, del «correntismo» nella magistratura, allo scopo di riportare l’organo di governo autonomo della magistratura alle sue funzioni costituzionali e di spezzare il legame con le realtà associative che lo hanno piegato a interessi di parte”.
Al varo della riforma il Governo è giunto, come promesso, senza che venisse posta la questione di fiducia. Dunque, nel pieno rispetto del Parlamento e del ruolo allo stesso specificamente riconosciuto dalla Costituzione in questa materia. Almeno formalmente.
In verità, alla minima sbirciatina oltre la forma, si vede subito che il Parlamento, di fatto, non ha toccato palla, limitandosi a timbrare un testo partorito dal Governo dopo una lunga mediazione che ha dovuto tenere contro degli equilibri delle forze di partito in campo e del loro modificarsi durante il tragitto che ha condotto al traguardo.
È la conferma, ammesso e non concesso che ce ne fosse bisogno, che il più grave deficit costituzionale è la sostanziale neutralizzazione della potestà parlamentare; deficit che, inevitabilmente, stante la fondamentale importanza che legge e riserva di legge hanno in questa materia, si riflette gravemente sull’assetto interno dell’ordinamento giudiziario e sui rapporti tra magistrati e magistratura, da un lato, istituzioni, politica e partiti, dall’altro.
L’esito riformatore appare tutt’altro che un disegno sistematico e razionale; piuttosto, si presenta come un cartellone confezionato a più mani in cui ciascun autore ha disorganicamente affisso le proprie bandierine, da sventolare e consumare sulla piazza mediatico-elettorale al grido di slogan approssimativi (la separazione tra giudici e pm, le porte girevoli, chi nomina non giudica, ecc.), buoni solo a riscaldare i cuori dei propri aficionados.
L’unico collante dei diversi interventi risulta la tendenza alla restrizione dell’indipendente esercizio della giurisdizione attraverso una sempre maggiore accentuazione della burocratizzazione e gerarchizzazione interna alla magistratura e agli uffici giudiziari, una sempre più intensa spinta al conformismo applicativo, un ulteriore aumento, a tutto discapito della qualità, di una produzione giurisdizionale già ampiamente superiore al punto di fumo.
Nel corpo riformatore è possibile distinguere le disposizioni che conferiscono deleghe al Governo – il quale, tendenzialmente entro un anno, dovrà intervenire con suoi successivi decreti per dare concretezza ai principi dettati dal Parlamento (solo formalmente, come detto; in verità, secondo una prassi ormai consolidata, tutt’altro che rispettosa dello spirito, quanto meno, della Costituzione, anche qui è il Governo a delegare se stesso dopo l’equilibrio raggiunto con i partiti) – da quelle immediatamente operative.
In questo secondo gruppo si inseriscono, tra le altre, le disposizioni attinenti al passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa, alla formazione del Consiglio Superiore della Magistratura, all’assunzione da parte dei magistrati di incarichi politici, governativi e amministrativi nonché alla cessazione degli stessi magistrati da tali incarichi.
Quanto al primo aspetto, premesso che l’esigenza della separazione delle funzioni è niente più che una boutade, atteso che le funzioni giudicanti e quelle requirenti sono già rigorosamente separate (non esistono ruoli che ne prevedano il contemporaneo e, men che meno, il contestuale esercizio), la riduzione delle possibilità di passaggio da una funzione all’altra, dalle attuali quattro a una volta soltanto, appare nient’altro che uno specchietto per le allodole.
Ai passaggi dalle funzioni requirenti alle giudicanti e viceversa sono già stati posti nel tempo fortissimi limiti, con la conseguenza che essi sono ormai rarissimi. Ciò, tuttavia, non avrebbe comportato alcun beneficio in termini di terzietà del giudice, asseritamente compromessa nell’attuale sistema.
Non si comprende, allora, quale benefico effetto potrà derivare da questo ulteriore limite.
Se vi è un problema ordinamentale di terzietà del giudice, questo non può che risiedere nella stessa unità ordinamentale dei magistrati. Il fronte sul quale trattare tale problema razionalmente e con serietà, pertanto, sarebbe stato proprio quello dell’unità ordinamentale tra giudici e pubblici ministeri.
Ma, a prescindere da ogni considerazione nel merito della c.d. separazione delle carriere, poiché l’unità ordinamentale della magistratura è imposta dalla Costituzione, in pendant con il principio di stretta legalità e con la natura non politica della giurisdizione, chi volesse percorrere tale strada dovrebbe farlo inevitabilmente nell’ottica di una riforma costituzionale.
L’illusionistica scorciatoia della separazione delle funzioni, al contrario, secondo il classico schema dell’eterogenesi dei fini, avrà solo l’effetto di creare dei “separati in casi”, accrescendo la conflittualità interna e così certamente aggravando il pericolo per la terzietà e imparzialità dell’azione giudiziaria.
Sulla riforma del procedimento di formazione del CSM, poi, il giudizio è unanime: nihil novi sub soli. Il Consiglio Superiore della Magistratura resta dominio incontrastato dei partiti, interni ed esterni alla magistratura. Il nuovo meccanismo elettorale non diminuisce punto il potere delle correnti di occupazione del CSM; semmai, ove fosse possibile, la complessità e farraginosità del “Cartabiellum” – un mix di collegi binominali con recupero proporzionale, nella quota giudici, fondato sull’apparentamento tra candidati – accrescono ancor più i margini di manovra dei partiti togati.
Del resto, che non bisognava coltivare troppe speranze era stato detto chiaramente e avrebbe dovuto essere da tutti compreso almeno sin da quando, mettendo in guardia “dalla semplificazione che confonde il valore del pluralismo con le degenerazioni del correntismo”, l’idea che un intervento sul sistema elettorale del CSM sarebbe servito a porre definitivo rimedio alle “note, non commendevoli vicende” e a risolvere le “criticità che stanno interessando la magistratura italiana”, era stata definita dalla Ministra Cartabia, nel plauso generale dei partiti e delle correnti, una “illusoria rappresentazione”.
Se queste erano le convinzioni dei riformatori, è naturale che essi non avrebbero potuto progettare e partorire un disegno idoneo a “ridurre il peso delle correnti nella scelta dei candidati e nella determinazione dei componenti dell’organo di autogoverno”.
E così inevitabilmente è stato.
Anzi, come accennato, piove sul bagnato. La riforma non solo non attenua in alcun modo il peso delle correnti nel governo dei magistrati ma semmai lo accresce.
Sotto queto profilo, un aspetto sicuramente assai negativo della riforma e a fortissimo dubbio di costituzionalità è il taglio delle ali alla platea degli eleggibili: messi fuori gioco circa un terzo dei magistrati, quelli non in possesso, alla data della convocazione delle elezioni, della terza valutazione di professionalità e quelli la cui data di collocamento a riposo precede la fine del mandato.
Davvero inspiegabile, se non nell’ottica che il potenziale consigliere del CSM deve essere coltivato e formato alla scuola delle correnti, l’esclusione di tutti i magistrati con meno di tredici anni di servizio (il conseguimento della terza valutazione di professionalità richiede almeno dodici anni di servizio e avviene all’esito di una complessa procedura di durata variabile a seconda dei distretti ma di almeno alcuni mesi), tanto più che fondata su un dato (il possesso della terza valutazione di professionalità alla data di convocazione delle elezioni) che, dipendendo dal concreto e differenziato evolversi delle procedure amministrative, comporterà inevitabilmente il trattamento differenziato di situazioni identiche.
Tale assai consistente esclusione dalla platea degli eleggibili è ancor più inaccettabile se si considera che è stata praticamente realizzata fuori tempo massimo, quando le elezioni, secondo una prassi consolidata, avrebbero già dovuto essere indette. Ciò, tra l’altro, si pone in radicale contrasto con il “Codice di buona condotta in materia elettorale” adottato dalla Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto, istituita nell’ambito del Consiglio d’Europa, che diffida fortemente dalle modifiche delle leggi elettorali nell’anno che precede le elezioni (invitando, in tal caso, a escluderne la immeditata applicabilità), le quali vengono considerate a fortissimo rischio di “manipolazioni” e delle quali si afferma che, in ogni caso, “anche in assenza di volontà di manipolazione”, appariranno come “legate a interessi congiunturali di partito”.
Incredibile, in queto contesto, che proprio l’asserito diritto di elettorato passivo dei magistrati abbia costituito l’argine insormontabile opposto all’introduzione del sorteggio dei candidati, l’unica opzione che avrebbe assicurato il conseguimento dello scopo dichiarato di attenuare lo strapotere delle correnti.
Anche sul versante dei rapporti tra magistratura e politica, infine, la riforma si presenta al contempo deludente e incostituzionale.
Mentre si interviene parzialmente e senza sostanziale efficacia su quella categoria di incarichi che, per quantità e qualità, compromettono maggiormente indipendenza e imparzialità della giurisdizione, ossia gli incarichi fiduciari dei magistrati nell’amministrazione, nel governo, nelle organizzazioni internazionali, nelle autorità indipendenti e quant’altro, cala invece la scure sugli incarichi elettivi.
I magistrati saranno eleggibili (rectius candidabili) soltanto lontano dai luoghi dove esercitano o hanno esercitato le loro funzioni.
Date per scontate le buone intenzioni dei riformatori, la scelta è il frutto evidente di una inadeguata comprensione della questione.
E invero, premesso che il fenomeno dei magistrati eletti è ormai da tempo ridottissimo, il problema vero è quello dei magistrati che, non si sa per quali ragioni e meriti ma certo per gentile concessione delle segreterie di partito o di uomini politici in carne e ossa, vengono catapultati dalle aule giudiziarie in collegi elettorali sicuri con i quali non risultano avere nulla a che fare.
Sono questi, piuttosto che quelli in cui i magistrati si mettono in gioco nei territori di provenienza, i casi, apparentemente inspiegabili, che gettano una luce sinistra sulle candidature e su quanto c’è stato o potrà esserci alle loro spalle.
Proprio i casi che avrebbero dovuto essere guardati con maggior sfavore, quindi, continuano a essere permessi mentre vengono vietati quelli più naturali, trasparenti e certamente meno allarmanti.
Senza dire che le limitazioni alla candidabilità e, soprattutto, al rientro in ruolo, appaino in stridente contrasto con le espresse previsioni di cui agli artt. 56, comma 3°, e 58, comma 2°, della Costituzione in materia di eleggibilità, rispettivamente, alla Camera del Deputati e al Senato della Repubblica, nonché all’art. 51, comma 3°, della Carta, che prevede il diritto alla conservazione del posto di lavoro per i cittadini chiamati all’esercizio di funzioni pubbliche elettive.
Insomma, l’impressione complessiva che si avverte esaminando la riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM appena varata è che il contesto determinato dalle “note, non commendevoli, vicende” abbia costituito qualcosa di peggio di un’occasione persa: una scusa per consolidare e blindare il controllo politico-partitico, di stampo oligarchico, sull’organizzazione giudiziaria e, attraverso di esso, sul concreto esercizio della giurisdizione.