Le c.d. “porte girevoli” della Giustizia

La indicazione dell’argomento affrontato con il presente articolo può sembrare riferirsi ad argomenti superficiali, di semplice, scorrevole e moderno senso comune.

La sua analisi, invece, si discosta profondamente dal riferimento oggettivo per far emergere la esistenza di un problema, che propone spunti di riflessione su principi costituzionali, etici, morali e di diritto comune.

Ed infatti, a conferma di ciò, malgrado il riferimento etimologico, richiamato in apertura, è interessante rinvenire in esso il riferimento ad una materiale mutevolezza dell’oggetto, espressiva di vari interrogativi scaturenti proprio da sostanziali diverse configurazioni e definizioni giuridiche.

Tale prima osservazione, pur nel suo facile riferimento a deduzioni di carattere etimologico, contiene ed esprime caratteristiche del linguaggio moderno, frutto di nuove concezioni e definizioni dei rapporti sociali.

Sempre più ricorrenti si riscontrano, infatti, modi di esprimersi indicativi, purtroppo, di una sostanziale banalizzazione dell’uomo, che dimostra di non credere più a nulla se non al proprio io, trascurando fondamentali valori etici.

Consegue da ciò un negativo relativismo legato ad un atteggiamento che non riconosce nulla di fondato e definitivo, capace di esprimersi unicamente con una prepotente e presuntuosa affermazione del proprio io e della propria volontà.

In tale contesto la definizione di “porte girevoli” trova la sua giustificazione e la sua motivazione. Emerge da ciò, dunque, una significativa espressione della moderna società, riconducibile a comportamenti di vari soggetti i quali, affrontando nuove iniziative ed esperienze, coinvolgenti modi differenti di esprimersi, ritengono di poter affidare alla sostanziale affermazione del proprio io e della propria volontà la fondatezza e l’autorità della scelta.

Una corretta concezione del rapporto dell’uomo con la propria società non deve, dunque, portare ad assolutizzare i rapporti con la stessa ed a ritenerli più importanti della stessa persona.

Tale affermazione suggerisce un consistente complesso di riflessioni sull’ordinamento politico e giuridico che coinvolge le problematiche fondamentali della società e del rapporto tra legge e diritto, tra ragione e giustizia. Con ciò non si vuole negare valore a nuove forme di socializzazione, quanto piuttosto provvedere a precisazioni che impediscano strumentali interpretazioni.

La socializzazione, come più volte è stato rilevato, non consiste solo nel digitare tasti e connettersi telematicamente con il resto del mondo, ma è anche scambiarsi voci, sguardi, palpiti, gesti, emozioni, sorrisi.

A fronte di ciò appare necessario, nella presente disamina, partire dalla definizione del diritto, considerato come ordinamento della vista statale, sociale, spirituale ed economica.

Esso, tuttavia, non ne rappresenta l’unica espressione, essendo affiancato da altri ordinamenti, egualmente dotati di rilevanza.

Ogni dibattito, ogni vivace contrapposizione argomentativa, ogni espressione di comportamenti non può esser risolta in base ad una proposizione giuridica senza tener conto di elementi di fatto. Da ciò deriva che la “questione di fatto” non può essere separata dalla “questione di diritto”. Il “fatto” inoltre, in quanto collegato a “questioni di diritto”, può richiamare altri ordinamenti che prevedono tutela e non consentono automatiche sminuizioni.

L’interpretazione giuridica, dunque, priva di un’esplicita formulazione e di una generale universalità non rende possibile, senza una disamina sul “fatto”, una sostanziale promulgazione autoritativa da parte del giudice. Secondo la terminologia del diritto, si potrebbe dire che tutto lo sviluppo della scienza giuridica consista nella conversione di una questione di un fatto in una questione di diritto. Malgrado ciò, l’interpretazione ricorrente, sostanzialmente, tende a considerare i due diversi termini non collegati ad un comune sviluppo.

Di conseguenza la “questione di fatto” tende a separarsi dalla “questione di diritto” e, quel che è peggio, dalle sue valutazioni.

Bisogna però ricordare che con “questione di diritto” si vuole far riferimento ai rapporti umani richiamati dall’ordinamento interno, dagli statuti, dai contratti, dalle disposizioni delle ultime volontà e dalle conseguenti eredità.

Per contro, invece, la “questione di fatto” mira ad una propria autonomia di valutazione e di interpretazione rispetto all’altra, violandone le disposizioni, creando controversie, anche in campi diversi.

La “questione di fatto” finisce così per trasformarsi in una “questione di diritto”, fondata su una sostanziale mutazione e sostituzione delle previsioni normative.

Non si tratta più, dunque, di stabilire se il fatto da considerare configuri un rapporto giuridico violato dal soggetto interessato, ma di motivare, comunque, la sua legittimazione scaturente dalla generalizzazione. Da questa valutazione deriva l’errore di ritenere che il compito della scienza giuridica consista nell’assumere delle fattispecie concrete, riconducibili a concetti giuridici prestabiliti.

Ne consegue che non sono i fatti ad esser giudicati ma i rapporti giuridici. Le norme che derivano dalla natura delle cose o dal suo concetto costituiscono regole e modi dell’agire nella vita sociale.

Esse sono opera della vita, non del legislatore. Esse possono esser conosciute ed accertate, ma non possono essere ritenute come prescritte ed imposte. Necessita, a questo punto, soffermarsi sul significato della certezza del diritto che richiama le varie forme di arbitrio contro le quali il diritto intraprende la sua lotta energica ed incessante, analizzando l’arbitrio del giudice e quello del legislatore, distinguendo cioè tra chi applica il diritto e chi lo emana.

Vi è però una forma di arbitrio che rende inutile la distinzione poiché trattasi di arbitrio che contempla sia la formazione del diritto che la sua applicazione.

Ciò comporta la necessità di una definizione di uno stato etico nel quale si concretizzi la oggettiva volontà della collettività.

Lo stato etico è quello che realizza una costante e certa volontà, coerente con se medesima, avente portata universale sulla premessa, nell’abito dl diritto.

Ciò spinge necessariamente a chiarire come possa esser giustificata, nel suo intimo essere, la esigenza della giustizia e la sua certezza.

Il diritto nella sua essenza è concepito dalla coscienza comune come sistema di norme tendenti a realizzare un ideale giusto, fondato sulla eguaglianza ed, attraverso di essa, all’affermazione della sua legalità.

Entrambi i principi richiamati appaiono non semplici nel loro concreto riscontro, poiché la legge si esprime in una formulazione astratta che ne richiama il suo spirito, affidando al fatto il riferimento ai suoi principi.

Emerge da tale distinzione una sostanziale autonomia ed un contrasto tra lo spirito e la lettera della legge, che offre fondata motivazione sul fenomeno, frequentemente ricorrente, di comportamenti adottati in ragione di una giustificazione carente della natura della formulazione normativa e dell’oggettiva concretezza dell’azione. Va infatti precisato che quando l’azione non ha ancora chiarita la sua reale natura, esprimendo la sua espressione di puro arbitrio, il richiamo al valore della norma serve a risolvere l’esistente contrasto tra giustizia e certezza.

Dunque è la reale natura del “fatto” ed il conseguente comportamento che dovrebbero offrire giustificazione della norma. Purtroppo però, come si è rilevato in precedenza, molti dei comportamenti ricorrenti, lungi dal ricercare armonia tra fatto e diritto, mirano a dare giustificazione ed approvazione del “fatto”, prevalente sul dettato normativo in ragione di una predominante superficiale manifestazione di volontà.

Proprio perché tale, il conseguente “fatto”, unicamente correlato ha espresso arbitrio volitivo, non può esser condiviso e tanto meno giustificato. A specificazione dei vari comportamenti va invece ribadita la necessità di approfondire l’esame della natura del diritto sostanziale approfondendone la ragione della sua obbligatorietà.

Emergono di conseguenza, e ne ricevono riscontro, le motivazioni psicologiche che hanno suggerito l’emanazione della legge, richiamandone la sua generale obbligatorietà, indipendentemente dalla considerazione di personali interessi.

La forza vincolante del diritto va dunque ribadita come assoluta, incondizionata, indipendente da riscontri giustificativi del “fatto”, pur se tale affermazione non manca di sollevare vivaci resistenze considerate negatrici dell’esistenza stessa del diritto conseguente al tentativo di promuovere un dispotismo giuridico.

Ma, pur a voler ammettere che i destinatari delle norme siano concretamente vincolati dalle prescrizioni, bisogna comunque riconoscere che queste richiamino, in definitiva, i doveri di chiarezza e trasparenza invocati dalla Corte Costituzionale.

L’esigenza di chiarezza rappresenta uno degli elementi essenziali del diritto.

Oggi vi è una forte tendenza ad identificare il diritto, non come un insieme di norme di condotta, bensì come una gerarchia di poteri e di comandi. Attribuire un alto valore alla chiarezza delle leggi non significa condannare quelle norme che fanno dipendere gli effetti giuridici da motivazioni di buona fede, di diligenza o di prassi. Talvolta, il modo migliore di raggiungere la chiarezza è quello di trarne il vantaggio, inglobando nella legge, giudizi di senso comune, generalmente diffusi e collegati a principi di superiore gerarchia.

In verità appare errato il ritenere che se l’estensore della legge può incontrare difficoltà nel formulare con chiarezza nelle norme il proprio intendimento, egli può trasferire in maniera errata tale compito ad autorità giurisdizionali.

Le esigenze di equità e correttezza possono invero ricevere il loro più preciso significato attraverso un “idem sentire” della comunità, che attende e ricerca, nei provvedimenti giuridici, l’affermazione dei principi di giustizia e ragionevolezza.

A questo punto il discorso richiama il problema tra l’intima moralità del diritto e la sua correlazione tra la legge e l’azione.

Essa può non realizzarsi in conseguenza di varie cause, riconducibili ad erronee finalità ed interpretazioni, a sostanziali pregiudizi, a illecite motivazioni corruttive o personali sollecitazioni.

In verità il compito di prevenire il contrasto tra la legge e quello che essa dichiara, il modo con cui essa è di fatto amministrata, è affidata ai giudici.

È pur vero però che esso si è rivelato relativamente inefficace nel generale controllo delle illegalità commesse, proprio in considerazione del facile e superficiale rinvio ad una consuetudinaria giustificazione.

Ciò porta ad approfondire il rapporto tra diritto naturale e la sua intima moralità la quale, sotto il profilo della sua individuazione, propone una concreta correlazione tra azione e legge, indicandone le corrette applicazioni.

Così configurata la moralità giuridica sembrerebbe di facile individuazione.

Anche tale ipotesi però, in buona sostanza, finisce per non risolvere le evidenti contraddizioni che la stessa legge propone in relazione ai principi di trasparenza, chiarezza e costituzionalità. Non di semplice soluzione infatti è l’interrogativo circa l’ammissibilità, dinanzi alla Corte Costituzionale, di questioni relative al diritto naturale ed alle sue libere scelte. Sul punto è stato infatti obiettato che una risposta affermativa finirebbe, in buona sostanza, per aumentarne eccessivamente l’indeterminatezza e l’incompletezza, richiamando di consegenza la necessità di migliori approfondimenti e riflessioni.

L’obiezione sollevata propone infatti, come necessaria, la ricerca delle affinità tra legalità e giustizia.

La morale del diritto richiede, in sostanza, che vi siano norme note, osservate da coloro cui è affidata la loro applicazione.

Agire secondo quanto stabilito dalle norme costituisce infatti condizione essenziale al riferimento della giustizia alla legge.

Nessun comportamento umano può infatti esser riconosciuto come legittimo se non conforme alle regole di correttezza e di coscienza previste dalle norme.

Rimane ora da affrontare una delle più vivaci e dibattute questioni in campo giuridico, legate all’ammissibilità di un diritto consuetudinario capace, come tale, di influire sulle regole sociali stabilite dallo Stato.

A tal proposito va subito rilevato che in nessun tempo, come in quello attuale, si è assistito a ricorrenti orientamenti e tendenze dirette alla formulazione di un nuovo diritto, modificatore di regole specificamente fissate ed espressive solo di un superficiale e presuntuoso relativismo.

È pur certo che una tale tendenza trovi una sua motivazione come conseguenza di un diritto statale, troppo spesso lento ed eccessivamente burocratico, ma è altrettanto vero che, una ripetuta conflittualità nel campo sociale non sembri accettabile. Di conseguenza, dunque, si pone il problema di come il contrasto rilevato possa trovare soluzioni nell’osservanza del diritto di libertà e dei generali principi, riconosciuti dallo Stato.

Riaffiora con ciò la ricorrente conflittualità di un diritto oscillante tra la prevalente affermazione di regole preesistenti ed i nuovi orientamenti interpretativi. In nome di un c.d. “diritto libero”, la mancanza di un’espressa previsione normativa autorizzerebbe libere interpretazioni derivate da nuove visioni sociali.

Da una parte, dunque, il ribadire il principio giuridico precedentemente stabilito, dall’altra la mutazione dell’interpretazione giuridica. Il diritto sociale, in conseguenza di tale ultima configurazione, finisce per introdurre così, senza un formale provvedimento normativo, nuove espressioni del costume e dell’agire, non direttamente collegati ai principi di moralità, chiarezza, trasparenza, correttezza voluti dallo Stato, ma solo da una mentalità popolare superficiale indeterminata ed incompleta, espressiva unicamente di utilitaristiche considerazioni.

Il fondamento morale del diritto prevede disposizioni che, oltre ad esser note, siano osservate correttamente, senza straripamenti interpretativi. Il riferimento alle diverse problematiche scaturenti dalle specifiche strutturazioni del diritto ed i conseguenti argomenti a sostegno delle diverse nature hanno, di volta in volta, evidenziato le specifiche incompatibilità tra generale normazione ed altre previsioni riconducibili a nuovi criteri fondati su libere scelte. Resta, per completezza di disamina, soffermarsi su un ultimo criterio di contenuto normativo sostitutivo della generale previsione mediante forme consuetudinarie di comportamento della collettività.

Il riferimento alla consuetudine, così come richiamata, conduce a previsioni non indicate dal legislatore né contenute in provvedimenti giurisdizionali, sollecitati dalla volontà popolare più volte manifestata.

Il riferimento consuetudinario, ancorché riconducibile a moltissime sue espressioni, non serve di per sé ad attribuire giuridico riconoscimento, limitandosi ad una mera espressione di pratica popolare, priva comunque di quei criteri di ragionevolezza, correttezza e compatibilità con i principi generali. Il richiamo alla consuetudine non può limitarsi, dunque, ai suoi generali caratteri senza il riscontro dei requisiti fondamentali, obbligatoriamente ricorrenti nelle norme giuridiche.

In conclusione, dunque, la certezza del diritto è l’unico requisito idoneo a garantirne la legalità.

I reali fondamenti del nostro diritto, infatti, richiamano la previsione e la statuizione del rapporto tra potere dello Stato e centralità della legge scritta. Tutte le considerazioni esposte, nel richiamare l’indipendenza di altre soluzioni, diverse dal completo, chiaro rinvio alle norme giuridiche, evidenziano, nel loro sostanziale contenuto, criteri di contraddittorietà, superficialità, scarsa chiarezza di riferimento.

Soffermandoci infatti su esempi particolari, che si rilevano di frequente, sembra di poter dire che i comportamenti adottati costituiscono il frutto di scelte motivate non dal rispetto ed osservanza di fondamentali principi giuridici, ma da ideologie diverse, propugnatrici di una sostanziale relativismo.

Si consolida così una dittatura che non riconosce nulla come definitivo e che conduce la soluzione intrapresa ad una unica ritenuta giusta misura del proprio io e delle sue volontà.

L’ideologia del relativismo, più volte sottolineata, comporta dunque la banalizzazione dell’uomo, che non crede più a nulla se non al suo proprio utile e convenienza, abbandonando fondamentali valori etici.

Una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non può portare a considerare assoluta la propria natura, rendendola più importante della sua stessa persona.

Il soffermarsi su di uno specifico e significativo problema servirà ad offrire la possibilità di interpretazioni chiarificatrici.

Si vuole richiamare con ciò il frequente dibattito sul divieto per i magistrati di iscriversi a partiti politici e di esprimersi secondo le conseguenti ideologie.

Le relative soluzioni adottate hanno preferito superare il divieto, considerando prevalente la manifestazione della volontà politica, rispetto agli obblighi di riservatezza stabiliti per i magistrati. L’interpretazione adottata però non appare condivisibile poiché non sembra superato il pericolo di un generalizzato non approfondito riconoscimento di una scelta fondata solo su di una semplice manifestazione di volontà, trascurando così ulteriori e pur rilevanti obblighi di legge. La diversa opinione, infatti, non intende prospettare solo il pericolo di un immotivato richiamo ad un diritto, quanto invece la mancata ricerca di un equilibrio tra riconosciuti principi diversi e contrapposti interessi.

Se infatti caratteristica, e vorrei dire necessaria configurazione e rappresentazione deve essere per il magistrato “l’apparire”, richiamato dalla Costituzione, sembra potersi dedurre che l’adesione di questi a partiti politici non possa giustificare, nella opinione pubblica, e soprattutto nei destinatari dei suoi provvedimenti anche semplici perplessità pur non legate a valutazioni di sospetto ancor più inaccettabili.

Volontario è stato su questo punto il richiamo alla figura del magistrato, ancorché comprensiva delle differenti funzioni di giudicante e di pubblico ministero, a testimonianza di un indirizzo rivolto ad entrambe le categorie.

Si noti che il contenuto della scelta volitiva comporta, nella sua sostanza, non soltanto l’iniziale mutamento della precedente funzione, ma anche la possibilità di un rientro nella precedente figura professionale. Il che indubbiamente serve a richiamare la possibilità di una doppia valutazione sull’indiscutibile indipendenza di giudizio del magistrato. Ulteriore approfondimento, conseguente alla espressa argomentazione, sembra esser suggerita dal richiamo contenuto nell’ordinamento giudiziario che vieta ai magistrati di iscriversi a partiti politici, prevedendo per questi, di conseguenza, procedimenti disciplinari. Il prospettato divieto servirebbe a garantire certezze di indipendenza da interferenze di carattere politico nella funzione giudiziaria. L’assenza dell’iscrizione a partiti politici servirebbe dunque, di per sé sola, a garantire il reale apparire.

Ma la soluzione offerta sembra essere più un escamotage rivolto ad allontanare i sospetti di una dipendenza politica, che non sostanzialmente a confermarne le riserve.

Il perdurare infatti dello status di magistrato, anche durante l’espletamento della diversa funzione politica, sembra infatti comunque autorizzare la possibilità di un procedimento disciplinare legato alla violazione del divieto previsto.

Una considerazione, favorevole all’ammissibilità di un’attività politica da parte dei magistrati, è stata inoltre ancora espressa evocando la necessità di consentire una specie di funzione di supplenza dei magistrati, ai fini di sopperire ai ritardi ed incertezze attribuite ad altri organi dello Stato.

Anche tale ultima giustificazione non appare condivisibile in quanto negata dalla negativa formulazione di una generale ed anticipata investitura politica della Magistratura, peraltro inammissibile sulla base del principio della divisione dei poteri dello Stato.

È stato ulteriormente rilevato che quanto suggerito avrebbe, di fatto, potuto conferire al potere giudiziario non   la soluzione di singole controverse, insorte nella popolazione, ma la possibilità di un generale indirizzo della funzione politica, vincolata alla decisione dei singoli magistrati.

Avviandoci alla finale conclusione, va pure sottolineato come si è richiamato in apertura del lavoro, dare ragione del significato letterale insito nella stessa definizione delle c.d. “porte girevoli”.

Da questa definizione, sia pure maliziosamente, per le caratteristiche di una facile mutevolezza delle posizioni che possono acquisirsi, fantasiosa terminologia ha considerato le “porte girevoli” anche indicative di situazioni giuridiche non corrette, coinvolgenti pure altri campi istituzionali. Anche il campo politico infatti, il ricorso a frequenti episodi di “porte girevoli”, pur pacificamente consentito, sembra possa adombrare incertezze non trascurabili.

Profili infatti di coerenza, fondatezza ed apparenza, riscontrabili in frequenti cambi di casacca, sembrano difficili da identificare nelle valutazioni conseguenti ad acquisite e mutate appartenenze politiche.

Forse il lamentato problema relativo alla scarsa affluenza elettorale può esser frutto di conseguenziali negative valutazioni da parte degli elettori.

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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