Riflessioni su violenza di genere e femminicidio


La violenza di genere e la sua più grave manifestazione, il femminicidio, costituiscono, nonostante l’allarme sociale sollevato anche in campo internazionale, un fenomeno in gran parte sommerso.

Posto in tali termini, il rilievo può sorprendere, ancor più se collegato alle vibranti reazioni espresse dalla pubblica opinione e da tutto il mondo sociale.

Sdegno, sbigottimento, totale rifiuto, assoluta inammissibilità, sono stati i sentimenti espressi dinanzi alla reiterazione, sempre con maggior frequenza, di gravi eventi criminosi.

Di conseguenza, da più parti, sono stati sollecitati interventi normativi e rimedi diretti a contrastare gli accadimenti indicati. A seguito di ciò, in varie occasioni, l’argomento in questione è stato affrontato. Tuttavia, prima della disamina delle soluzioni prospettate, va ricordato che la criminosa configurazione, pur avendo antiche origini, non ha ricevuto, in precedenza, la necessaria attenzione, limitandosi solo a discontinui e rari interventi ed arresti normativi.

Ne costituiscono un esempio le costituite commissioni parlamentari di inchiesta delle quali, solo l’ultima, ha formazione bicamerale. Solo, come rilevato, con l’aggravarsi e la reiterazione degli avvenimenti delittuosi si è prestato miglior interessamento. Va tuttavia stigmatizzato come il legislatore, dinanzi ad eventi di rilievo, rimanga spesso inerte, rinviando e riservando il proprio intervento solo a seguito di successivi accadimenti.

Va poi anche sottolineato che la successiva disamina delle disposizioni non si sottrae ad ulteriori interrogativi e riflessioni.

Inducono infatti a tale considerazione vari fattori, a partire dalle indeterminatezze linguistiche, dalle improprietà dei termini giuridici adottati, dalla labilità e genericità dei rimedi prospettati, dalla svogliata coesione internazionale.

Tali rilievi richiamano tutti il fondamentale principio di certezza del diritto attraverso la chiarezza e la efficacia dei suoi interventi.

Il primo interrogativo riguarda l’adozione del termine “femminicidio”.

L’insorgenza del problema deriva da un generale processo di riconoscimento ed attribuzione dei propri diritti da parte delle donne, in evidente contrasto con la arrogante ed assoluta affermazione del proprio “io”, in un contesto sociale culturalmente povero. Il rilievo rende evidente che la portata del fenomeno non può essere ricondotta alla sola differenza di genere, coinvolgendo tutto il contesto sociale, la sua completa configurazione ed intrinseca natura, il suo modo di essere. La violenza, essendo di genere, non può subire distinzioni. Se così è, appare inoltre riduttivo denominare la parte offesa con il termine di ”femmina” piuttosto che di “donna”.

Il sostantivo “femmina” è alternativo al termine “maschio”. Dinanzi a tale distinzione, la considerazione del problema si limita al solo aspetto sessuale e non a quello più generale e fondamentale contenuto nel termine “donna”.

La rilevata distinzione terminologica, adottata dal legislatore, finisce per esprimere così una superficiale, limitata ed ingiustificabile configurazione del problema. La individuazione della parte offesa va dunque operata non su erronea distinzione, ma piuttosto sulla generale visione di tutela del bene e della vita di ogni individuo.

Il generale riferimento ad ogni individuo, dunque, serve a superare la limitazione pur sempre presente nella distinzione.

Va ancora rilevato che una corrispondenza di riflessione sembra emergere tra l’argomento trattato e la previsione di cui all’art. 575 c.p., che punisce “chiunque cagiona la morte di un uomo”.

Da ciò si potrebbe dedurre che anche l’omicidio, facendo riferimento al solo genere maschile, limiterebbe sostanzialmente il riferimento della persona offesa al solo uomo.

Il termine “femminicidio” sarebbe dunque conseguentemente giustificato dall’aver sanato una carenza normativa emergente dal dettato dell’art. 575 c.p.

Il rilievo però è solo apparente. Diverse sono invece le argomentazioni, che possono trarsi per ciascuna delle due definizioni.

La previsione contenuta nell’art. 575 c.p. e la sua configurazione normativa, con il riferimento al solo genere maschile, è stata ritenuta esprimere una sostanziale visione patriarcale conformata nella società al tempo della emanazione del codice e tuttora presente nella considerazione sociale.

Il giudizio negativo, che discende da tale interpretazione, sembra però indicare più la volontà di esprimersi con termini genericamente comprensivi delle due specie e totalizzanti, che non, erroneamente, con intenti affermativi di una superiorità di un genere sull’altro.

Diversa interpretazione è suggerita invece dalla definizione del reato di femminicidio.

L’uso del termine adottato dal legislatore sembra tendere più a seguire, con la sua fonetica pronuncia, l’approssimativa usanza giornalistica di etichettare fenomeni piuttosto che indicare corrette definizioni.

La configurazione del termine, come si è detto, si sostanzia in una gravissima manifestazione di violenza. La sua previsione normativa, dunque, richiama in maniera più fondata e per sua stessa espressione letterale, la totalità del genere. Se così non fosse il termine femminicidio sembrerebbe contraddittorio, nella sua definizione, e riduttivo rispetto al suo più ampio riferimento.

La fondatezza del rilievo sembra inoltre trovare una sua motivazione nel richiamo alle caratteristiche di un fenomeno che, manifestatosi con sempre più numerosi, incalzanti e feroci espressioni di violenza, ha sollecitato il contesto sociale a superare le tiepide e superficiali iniziative anteriormente adottate.

La risposta apprestata, infatti, è stata di conseguenza caratterizzata dall’intendimento di predisporre previsioni normative severe ed ampie, non soltanto nei contenuti, ma anche nei riferimenti di legge. Proseguendo nella disamina degli interventi normativi, altre perplessità ed altri interrogativi si inseriscono tuttavia nella ricerca di una chiara e corretta interpretazione della legge.

Secondo la giuridica previsione il reato in oggetto si consuma in ogni atto di violenza sulle donne che provochi danno o sofferenza fisica, sessuale, psicologica, economica. Dinanzi a tale indicazione la prima domanda che si propone porta a richiedersi se la natura del reato si sostanzi in un evento di danno o anche nel solo pericolo che esso si realizzi. Il riferimento ad un evento di danno, espresso nella rubrica del reato, sembrerebbe non lasciar dubbi sulla sua natura, ma contrariamente a tale affermazione, sono le ulteriori disposizioni, pure indicate nella legge, che prospettano ipotesi alternative.

Queste infatti, indicando accorgimenti, comportamenti, prescrizioni finalizzate ad evitare la causazione del danno, ne configurano il pericolo sotto il profilo del tentativo punibile.

La individuazione e l’accertamento di una situazione di pericolo nella giuridica configurazione, costituisce però elemento di difficile acquisizione.

Ciò va detto non soltanto in ragione della mancanza di una giuridica definizione del pericolo, ma anche in rapporto ai vari suoi aspetti.

A seconda di essi il pericolo può essere reale, grave, concreto, prossimo, immanente e così via, in rapporto a percezioni che possono essere diversamente orientate a seconda di personali valutazioni prognostiche e di individuali giudizi.

Tutto ciò serve ad evidenziare difficoltà interpretative non trascurabili, ancor più se non confortate dalla presenza di giuridiche definizioni delle varie situazioni.

Lascia dunque perplessi in particolare, ed in relazione all’evidenziato profilo, la previsione della adozione di misure cautelari legate alla valutazione di una maggiore o minore probabilità di commissione di atti di violenza.

In conclusione l’importanza del fenomeno, la corrispondente rilevanza dell’allarme sociale e le incertezze interpretative, scaturenti dalle disposizioni normative e da errati ricorsi a provvedimenti di delega, sollecitano un attento approfondimento del panorama socio-culturale che sottende le attuali manifestazioni, prendendo cognizione della necessità di una educazione alla legalità e convinto coinvolgimento internazionale, respingendo emergenti forme di feticismo del proprio “io”, sempre più affioranti, pericolose e negative di ogni ricerca del bene ed interesse comune.

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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