La giustizia riparativa,
un nuovo paradigma per la giustizia penale e per una giustizia di comunità


Nella legge delega 134 del 2021 e successivamente nel d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (legge Cartabia) insieme alle norme per migliorare l’efficienza del processo penale e le disposizioni per la celere definizione dei provvedimenti giudiziari è stata introdotta per la prima volta nel nostro Paese, la disciplina in materia della giustizia ripartiva.

Si tratta di un importante cambiamento ancora non completamente compreso e quindi non pienamente utilizzato dagli addetti ai lavori e quasi sconosciuto ai cittadini, potenziali fruitori.

Autorevoli esperti di diritto hanno scritto e scrivono sul tema. Molte le analisi del nuovo sistema procedurale introdotto, numerose le considerazioni, le perplessità, i travisamenti che si stanno incontrando nel proporre e promuovere i programmi di giustizia riparativa disciplinati dalle norme del titolo IV della legge.

Difficoltà comprensibili se non si prova a comprendere che forse una risposta diversa alla domanda di giustizia può essere data in complementarietà e/o anche in alternativa ai procedimenti che si svolgono nelle aule dei nostri tribunali.

Spesso all’esito di un processo penale, che si è concluso con una sentenza di condanna per il responsabile del reato, la vittima, i suoi familiari, si dichiarano comunque non soddisfatti come se il pronunciamento del giudice non sia sufficiente per lenire il dolore, il perché del danno subito e gli effetti che si sono prodotti. Succede anche che il riconoscimento del danno, in chiave economica, sia vissuto spesso come “un’amara” consolazione.

La richiesta di giustizia e la risposta che conclude il procedimento penale, assumono valenza soggettiva poiché condizionati da percezioni ed aspettative individuali, che spesso non trovano soddisfazione nell’ambito del processo penale e che non si esauriscono nella risposta retributiva della sentenza di condanna.

Si parla di vittimizzazione secondaria in tutte le ipotesi in cui la vittima vive di fatto una esclusione dal processo di ricostruzione dei fatti; ricostruzione per accertare la verità che nell’ambito del processo è verità processuale. Verità processuale che lascia in disparte molti altri aspetti della vicenda non rilevanti ai fini del processo, ma fondamentali per la vittima, per i suoi familiari per la comunità di riferimento.

E l’autore del reato? Il processo penale è strutturato in modo tale da assicurare le garanzie all’imputato. Su questo principio l’accusa e la difesa agiscono seguendo lo schema processuale per confermare fatti e circostanze a sostegno delle due tesi contrapposte: colpevole o innocente.

L’autore del reato cerca l’assoluzione, ovvero una pena minima e ove possibile alternativa al carcere. Il percorso rieducativo e la riflessione critica circa il proprio operato sono rinviate alla fase di esecuzione della pena che nel nostro ordinamento, deve tendere alla rieducazione (art. 27 Cost).

La riflessione critica nella maggior parte dei casi si realizza senza alcuna relazione con la vittima. Per la concessione della liberazione condizionale il sicuro ravvedimento del condannato viene valutato sulla base del comportamento serbato nel corso della detenzione, con il personale penitenziario, con gli altri detenuti, con la sua famiglia. Il ravvedimento è anche valutato sulla base del suo impegno scolastico e lavorativo. La mancata richiesta di perdono da parte del condannato alla vittima del reato può incidere negativamente ai fini della concessione della misura, ma si ritiene che non possa di per sé costituirne ostacolo.

Nella legge Cartabia, l’autore del reato, che ha partecipato al programma di giustizia riparativa con esiti soddisfacenti (valutati come tali da tutte le parti coinvolte) consente al magistrato, in sede di irrogazione della pena, di ridurne l’entità, di comminare misure sostitutive. In caso di percorso ripartivo, intervenuto successivamente in fase di esecuzione di pena detentiva, il magistrato di sorveglianza potrà considerare favorevolmente gli esiti del programma ripartivo per concedere lavoro all’esterno, misure premiali ed alternative.

Howard Zehr, criminologo americano, tra i primi a fornire le cornici teoriche della restorative justice, afferma che questa [restorative justice] propone una sorta di equazione per la quale “il crimine è una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali; le violazioni creano obblighi; l’obbligo principale è quello di rimediare ai torti commessi (to put right the wrongs)”.

Si tratta di un nuovo paradigma che pone al centro la persona, le sue esperienze e le relazioni interpersonali che ne connotano l’esistenza. Mentre l’impostazione formalistica del diritto penale moderno e contemporaneo, considera il reato come violazione di una norma (quale condotta ascrivibile ad una fattispecie astratta descritta da una norma penale) e la pena come ‘conseguenza giuridica’ che sanziona tale condotta (pur diversamente caratterizzata per giustificazione e finalità). Nel processo le persone coinvolte nel fatto reato restano sullo sfondo, marginali e molto spesso spettatrici del procedimento penale che invece li riguarda direttamente.

La giustizia riparativa, traduzione italiana del termine inglese restorative justice, introdotta nel nostro ordinamento con la riforma Cartabia, rappresenta un primo importante passo verso una diversa, più matura e consapevole gestione della giustizia. Una giustizia delle persone che si occupa delle relazioni, dei vissuti di ciascuno consentendo a tutti gli attori coinvolti di potere esprimere liberamente, in uno spazio riservato e protetto, i propri sentimenti relativamente ad un fatto che ha causato una frattura (un danno) nel loro sistema delle relazioni familiari, sociali, lavorative.

Certamente è difficile comprendere come sia possibile realizzare un programma riparativo a fronte di un delitto efferato per il quale la pena prevista è l’ergastolo. Lo Stato non dismette il suo ruolo in funzione della tutela del bene che con la norma si è inteso tutelare. Per questa ragione la legge Cartabia ricorda che i programmi di giustizia riparativa possono intervenire in qualunque stato e grado del procedimento e anche nel corso dell’esecuzione della pena senza sovvertire i contenuti della sentenza.

Il “Libro dell’Incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto “ a cura di Guido Bertagna, Adolfo Ceretti e Claudia Mazzucato, ricordato anche nel corso della conferenza che si è svolta a Roma lo scorso mese e promossa da LEX – Istituto per la ricerca giuridico-economica, racconta l’esperienza riparativa che per oltre sette anni ha coinvolto, tra gli altri, la figlia di Aldo Moro, Agnese, i familiari delle vittime e gli autori responsabili di rapimenti, ed omicidi che hanno macchiato la storia d’Italia negli anni ’70 e ’80. Un libro profondo, emozionante che racconta l’importanza di comprendere le ragioni attraverso un dialogo, difficile, doloroso a tratti drammatico, tra gli autori di quegli orribili delitti e i tanti famigliari che hanno subito gravi perdite affettive. Le ragioni sono sintetizzate in una delle frasi che troviamo scritte nell’introduzione alla lettura del libro: “Il desiderio di conoscere e riconoscere l’altro oltre i pregiudizi e i rigidi stereotipi è stata una spinta profonda e motivante per tanti di noi.”

La cornice giuridica che la legge Cartabia fornisce è stata costruita sulla scorta dei principi da ultimo contenuti nella Raccomandazione (2018)8 del Consiglio d’Europa.

Quel testo, invita gli Stati membri a riconoscere“che il reato implica la violazione di diritti e relazioni degli individui, la cui riparazione può richiedere una risposta che vada oltre le sanzioni penali e che debba essere considerato il fattivo contributo che può essere fornito dalle organizzazioni non governative e dalle comunità locali nel ripristinare la pace e nel realizzare armonia sociale e giustizia, nonché la necessità di coordinare gli sforzi di iniziative pubbliche e private.”

La Raccomandazione intende promuove “standard per il ricorso alla giustizia riparativa nel contesto della procedura penale e cerca di salvaguardare i diritti dei partecipanti e di massimizzare l’efficacia del percorso nel rispondere ai loro bisogni. Essa [la raccomandazione] mira inoltre a incoraggiare lo sviluppo di approcci riparativi innovativi – che potrebbero collocarsi al di fuori della procedura penale – da parte delle autorità giudiziarie e delle agenzie di giustizia penale e di giustizia riparativa.” (cfr regola 1 )

La raccomandazione del Consiglio d’Europa sottolinea che la giustizia riparativa consente alle persone che subiscono pregiudizio, di partecipare (con un consenso liberamente espresso ed informato), “… attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale” che la raccomandazione definisce facilitatore.

“Facilitatore” e non già “mediatore” come invece sceglie di definire il soggetto terzo formato ed imparziale, la legge italiana. Non si tratta di una mera differenza formale. La figura del mediatore presuppone sempre una posizione mediata tra due posizioni divergenti e la sintesi è una ricomposizione della controversia spesso non ricercata e voluta.

Howard Zehr, già citato nel corso di questo articolo, afferma che soprattutto nelle legislazioni europee si tende ad identificare la giustizia riparativa con la mediazione vittima-offensore (VOM). Questo modello non è l’unico, anzi appare ridurre l’ampia prospettiva che invece le pratiche di giustizia riparativa consentono di offrire alla vittima, all’autore, ma anche alla comunità dove il fatto reato si è consumato ed ha prodotto danni in chiave non solo economica ma anche affettiva, morale e sociale.

I programmi riparativi, e lo ricorda anche la Raccomandazione del Consiglio d’Europa, possono prevedere tra gli altri le conferenze riparative, le conferenze di gruppi familiari, i circoli di conciliazione o le sentencing circles.

La scelta di una di queste modalità (che potremmo chiamare il setting dell’incontro) non è scelta solo formale ma sostanzia e connota l’articolazione del dialogo tra le parti, non sempre e non solo vittima e autore, ma anche i familiari dell’una e dell’altra parte, la comunità coinvolta nell’evento reato e anche rappresentanti della società civile e le associazioni del terzo settore interessate. In questi casi l’uso della mediazione (che è più orientata a creare un bilanciamento di poteri tra la vittima e l’autore del reato), può essere fuorviante e non coerente con i principi e gli obiettivi che la giustizia riparativa persegue. Il ruolo del facilitatore invece offre una visione neutra, un mandato diverso da quello degli operatori di giustizia e dell’esecuzione penale, non ha nessun obbligo di risultato se non quello di occuparsi di facilitare l’accessibilità al percorso riparativo da parte dei richiedenti verificando la disponibilità di tutti i soggetti coinvolti, accompagnandoli nel percorso dialogico di confronto e reciproca comprensione.

Il risultato, l’esito degli incontri, non deve necessariamente includere risultati tangibili. “… Le parti sono libere di concordare che il dialogo ha soddisfatto sufficientemente i loro bisogni e interessi.” (cfr. regola 51 della Racc.2018(8)).

È comprensibile che il nostro legislatore, in questa prima scrittura della disciplina abbia preferito fare riferimento ad un profilo professionale già conosciuto per evitare di aggiungere complessità ad una materia di portata così innovativa. Nel corso degli anni a venire gli emendamenti che interverranno (si tratta di materia che per sua natura dovrà evolvere attraverso le prassi applicative che saranno sperimentate), auspichiamo possano anche prevedere una più articolata definizione del profilo professionale del mediatore/facilitatore.

Del resto la stessa Raccomandazione del Consiglio d’Europa considera possibile, ed anzi auspica, che i principi della giustizia riparativa, “…possano essere utilizzati quale quadro per sostenere più ampie riforme della giustizia penale”.

Non si può non concordare con quanti hanno sottolineato la straordinaria valenza e l’enorme significato che assume la giustizia riparativa definendola un “percorso di umanizzazione e personalizzazione della penalità” (cfr. R. Bartoli e F. Cingari, Relazioni scritte svolte nell’ambito del Corso di perfezionamento “La giustizia riparativa”, tenutosi presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze nel marzo 2023).

Non è solo il procedimento penale che può attraverso il paradigma riparativo trovare nuove strade e soluzioni a “misura della persona”.

La raccomandazione del Consiglio d’Europa nel titolo VII a conclusione del testo ricorda anche che “I principi e gli approcci riparativi possono anche essere applicati nell’ambito del sistema della giustizia penale, ma al di fuori della procedura penale. Ad esempio, possono essere applicati quando vi è un conflitto tra cittadini e operatori di polizia, tra detenuti e operatori penitenziari, tra detenuti, o tra gli operatori dei servizi di probation e gli autori dell’illecito affidati alla loro sorveglianza. Essi possono essere anche applicati in caso di conflitto tra il personale delle autorità giudiziarie o delle agenzie della giustizia penale”. (cfr regola 59)

Tra le linee evolutive che traccia il Consiglio d’Europa nel corpo della raccomandazione (regola 61) si afferma che le autorità giudiziarie e le agenzie della giustizia penale nel prendere decisioni gestionali e nel consultare il personale, nei processi decisionali organizzativi potrebbero ispirarsi ai principi riparativi. Tutto questo con l’intento di costruire fiducia, rispetto e capitale sociale nell’ambito dei gruppi coinvolti e contribuire così alla costruzione di una cultura riparativa nei processi decisionali di quelle organizzazioni.

Si tratta di una sollecitazione che il Consiglio d’Europa rivolge agli Stati membri per ampliare il nostro orizzonte costruendo, riconoscendo la legittimità di percorsi diversi che possano produrre un “senso di giustizia” maggiore di quello offerto fino ad oggi dalla giustizia penale.

Il percorso è appena stato avviato. La complessità delle norme potrebbe rallentare “la navigazione” ma ci sono già molti esempi virtuosi ed una sperimentazione promossa da associazioni, enti di ricerca ed università in grado di offrire ogni utile supporto per dare avvio al cambiamento.

Numerose le esperienze che forse, perché positive, non salgono all’onore delle cronache, e che invece confermano come, porre al centro i bisogni delle persone, le relazioni umane, qualificarne i contenuti sia possibile modificare il percorso del singolo, le sue relazioni ed il contesto sociale nel quale vive.

Non si tratta di “miracoli”, ma di percorsi concreti che richiedono tempo perché si maturi un clima di fiducia che consenta di costruire relazioni generative di dialogo, ascolto, rispetto.

Nel sistema penitenziario, assediato da problemi di non facile soluzione, in alcuni istituti, ove è stato possibile, sono state organizzate le conferenze riparative realizzate con il contributo di esperti, volontari e rappresentanti della società civile al fine di promuovere la costruzione di relazioni propositive tra il “dentro ed il fuori” ed un clima positivo tra il personale, con i detenuti e con la società esterna.

Le esperienze fin qui condotte consentono di affermare che queste sollecitazioni facilitano la riflessione dei ristretti sul valore della condotta criminale adottata e sulle proprie responsabilità morali e sociali attraverso riflessioni critiche sul proprio vissuto. Queste esperienze in molti casi hanno consentito i percorsi di cambiamento e ri-educazione.

Carla Ciavarella

Membro del Comitato per la Cooperazione Penologica del Consiglio d'Europa

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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