Mezzo giudice o superpoliziotto?


Si è da poco celebrato il “rito” dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in tutte le Corti italiane ed i magistrati, aderendo alla protesta concepita dalla relativa associazione, hanno abbandonato l’aula quando a prendere la parola era il rappresentante del governo.

Con la Costituzione in mano e la toga sulle spalle quel gesto, plateale, doveva significare il dissenso verso la riforma della giustizia in corso di realizzazione ed articolata in tre punti basilari. La separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti; il sorteggio per la scelta dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura (o meglio, dei due Consigli superiori); l’istituzione di un giudice disciplinare esterno rispetto, per l’appunto, ai rispettivi Consigli superiori.

La protesta ha conseguito l’effetto scenografico che si prefiggeva: è chiaro a tutti che l’Associazione Nazionale dei Magistrati è contro questa riforma, che non le conviene.

Se si entra nel merito delle obiezioni possono scorgersene le ragioni.

La Costituzione esibita dai togati in occasione della cerimonia inaugurale ostile al governo s’ispira, innanzi tutto, al principio della separazione dei poteri, senza prevedere che tra gli stessi sorga un conflitto non risolvibile nelle forme previste dalla stessa Carta, vale a dire dinanzi alla Corte Costituzionale.

Il conflitto politico, cioè, non era stato considerato dai Costituenti.

Perché di questo si tratta, di un conflitto tutto politico e non certo giuridico.

Oggi i magistrati manifestano contro un iter legislativo, altre volte i politici si sono agitati contro un processo.

Tentativi di reciproco condizionamento, schermaglie extra ordinem, potrebbe chiosarsi.

Per entrare nel merito delle questioni sarà bene sottolineare che il pubblico ministero conosciuto ai Costituenti non è quello odierno.

Ha cambiato pelle per effetto del codice di procedura penale varato nel 1989 e da organo ancillare del giudice qual era in precedenza, ha assunto il dominio assoluto dell’accusa nel processo penale, autonomo dal giudice al quale rivolge le sue richieste, come se fosse una “parte”.

La separazione delle “carriere” risponde, fondamentalmente, a questo mutato assetto del pubblico ministero, vuol prenderne definitivamente atto eliminando la “promiscuità” con il corpo dei giudici.

È singolare che uno degli argomenti spesi per contrastare l’ipotesi della separazione delle “carriere” faccia leva sulla constatazione che molto di rado si verifica che un pubblico ministero chieda di fare il giudice o viceversa.

Come a tale argomento possa poi accompagnarsi l’affermazione del valore della “comune cultura della giurisdizione” resta un teorema tutto da spiegare: se chi fa il giudice non fa il PM e chi accusa non giudica ad accomunare le due categorie di togati resta solo il concorso di ingresso in magistratura e l’unico Consiglio Superiore che ne amministra le sorti (valutazioni di professionalità, trasferimenti, incarichi direttivi, punizioni disciplinari).

A questa “cultura” resterebbero estranei solo gli avvocati, cioè le controparti del pubblico ministero.

Occorre, in definitiva, scegliere se il cittadino debba temere maggiormente di essere accusato da un “mezzo giudice” piuttosto che da un “super poliziotto”, altro slogan associato all’ipotesi del pubblico ministero separato. Se un pubblico ministero partecipe della “cultura” del giudice dovrebbe garantire maggiormente i cittadini, non può loro nascondersi il rischio di una sentenza emessa da un giudice partecipe della cultura dell’accusa.

Si tratta, per l’appunto, di una scelta politica che spetta al Parlamento.

Che due siano i Consigli superiori (uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri) è un semplice corollario di quella scelta.

Ad agitare l’Associazione Nazionale dei Magistrati è, piuttosto, l’ipotesi che i consiglieri superiori non saranno più sua diretta emanazione, essendo previsto il sorteggio dei relativi componenti in luogo delle attuali elezioni, ampiamente governate dal sindacato (dai sindacati, le correnti) delle toghe.

I magistrati che hanno esibito la Costituzione durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario non si sentono “rappresentati” dai colleghi sorteggiati anziché eletti e tutto ciò non sarebbe democratico.

In realtà, che i magistrati debbano avere dei “rappresentanti” in seno all’organo che ne amministra la carriera è una tesi costituzionalmente ardita ed ancor oggi non dimostrata. La rivendicata “politicità” del CSM è di fatto ancorata esclusivamente all’elezione dei suoi membri.

Per questo motivo il sorteggio dei consiglieri superiori è il vero punto di rottura, capace com’è di disarcionare il “correntismo”, vale a dire il sistema di potere che i magistrati si sono dati nell’indifferenza di un Legislatore disattento o tollerante, per convenienza.

È fallito, come meritava, il tentativo di addossarne le colpe ad uno solo.

Per giunta fingendo di ignorare che se un solo individuo è stato in grado di fare i danni che hanno indotto il Presidente della Repubblica ad evocare il degrado etico della magistratura italiana, allora quel “sistema” è comunque bisognoso di cure urgenti, permeabile com’è alle cattive influenze.

Quanto alle punizioni disciplinari dei magistrati, spostare all’esterno del CSM la relativa competenza non ha molto senso proprio perché i nuovi organi collegiali, frutto del sorteggio, dovrebbero fugare la sfiducia che in passato s’è guadagnato, sul campo, il giudice disciplinare eletto dallo stesso incolpato.

Il vero pericolo che un Legislatore sapiente dovrebbe affrontare è quello dell’interferenza del procedimento disciplinare sui processi in corso di svolgimento. Troppo spesso si è assistito all’impiego dell’arnese disciplinare allo scopo di condizionarne gli esiti, col grottesco paradosso di atti ritenuti legittimi nella sede propria e tuttavia disciplinarmente sanzionati come abnormi.

Va rimeditata la stessa idea di un “giudice” disciplinare, non presente nella Costituzione e frutto di una mera “tradizione” tramandata a dispetto del divieto di istituire “giudici straordinari o speciali” (art. 102 Cost.).

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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