Le dimissioni di Carlos Tavares da amministratore delegato del gruppo Stellantis hanno evidenziato drammaticamente il fallimento del piano industriale della società, travolto dal pessimo andamento delle vendite e dei conti e da una serie di errori di conduzione e, più in generale, la grave crisi che ha investito tutta l’industria automobilistica in Europa e in Italia.
Nel nostro Paese il settore dell’automotive ha un’importanza cruciale, dal punto di vista economico: conta oltre due mila aziende, con quasi sessanta miliardi di fatturato e 170 mila addetti. Oltre due terzi di queste realtà lavorano con Stellantis e quattro quinti sono presenti sui mercati esteri.
Il comparto sta soffrendo una tempesta perfetta. Da una parte, la transizione ecologica, con gli obiettivi molto sfidanti assunti dall’Unione europea, che ha stabilito un percorso di rapida decarbonizzazione che culminerà con il divieto di vendita di veicoli a motore endotermico a partire dal 2035. Dall’altra, la rivoluzione tecnologica, con l’avvento delle auto a motore elettrico e dei sistemi a guida autonoma. L’industria europea è arrivata a questi appuntamenti avendo accumulato un preoccupante ritardo tecnologico nei confronti dei competitori cinesi. È questa la radice fondamentale della crisi delle grandi case europee. Negli ultimi vent’anni la Cina ha messo in campo un progetto-Paese di lungo periodo e di enorme portata, con massicci investimenti su tutta la filiera dell’auto elettrica, diventando la “fabbrica del mondo” anche nel settore automotive. Se nel 2003 la produzione delle fabbriche cinesi era pari a 4,4 milioni di veicoli, nel 2023 è cresciuta fino a 30,2 milioni. Secondo un rapporto presentato pochi giorni fa dal CER, tra il 2015 e il 2022 il prezzo dei veicoli elettrici in Cina si è ridotto del 52 per cento, mentre in Europa è aumentato del 14 per cento e negli USA del 20 per cento; oggi per le auto elettriche cinesi è mediamente inferiore del 33 per cento rispetto a quelle a benzina, mentre in Europa è superiore del 43 per cento e negli USA del 27 per cento. La quota di mercato di auto elettriche in Cina si è letteralmente impennata e con tutta probabilità supererà il 50 per cento nel 2025. Certo, l’industria automobilistica cinese è generosamente sussidiata dallo Stato, ma questo elemento spiega solo in parte ciò che è avvenuto. La verità è che in questi anni i grandi manager delle case europee si sono cullati sugli allori, sottovalutando quanto stava avvenendo e distribuendo montagne di dividendi ai loro soci anziché reinvestire gli utili in ricerca e sviluppo. Oggi, stiamo pagando carissima questa miopia e il comparto automobilistico europeo rischia di fare la stessa fine di BlackBerry con l’avvento di iPhone. Che questo avvenga non è un destino ineluttabile. Ma l’Unione europea e i governi nazionali non possono rimanere inerti. Pensare di risolvere il problema spostando in avanti la scadenza del 2035 rischia di essere illusorio e controproducente. Semmai, il percorso va reso più flessibile e realistico, a partire dalla questione delle sanzioni per oltre 15 miliardi di euro che rischiano di abbattersi su molte case automobilistiche a partire dal 2025. Ma il punto di fondo non sono le date, quanto l’assenza di una politica industriale degna di questo nome. L’Unione, per il momento, si è dedicata alle regole e agli obiettivi. Ma regole e obiettivi devono essere affiancate da una robusta politica industriale che sostenga l’innovazione produttiva e la riqualificazione della forza lavoro. Su scala europea così come a livello nazionale. In questa prospettiva, è una follia che il governo italiano abbia deciso di tagliare dell’80 per cento il fondo automotive ereditato dal governo Draghi. Quelle risorse vanno ripristinate subito e integralmente: non possiamo certo affrontare una crisi di questa portata a mani nude. È necessario intervenire sul costo dell’energia, che secondo le aziende del settore è uno dei principali fattori di debolezza competitiva. Mentre il governo chiacchiera amabilmente di nucleare (una tecnologia che ha bisogno di enormi investimenti e tempi superiori a dieci anni), il divario nei costi dell’energia che divide l’Italia dal resto d’Europa sta peggiorando, nella completa inerzia del nostro esecutivo. Gli ammortizzatori sociali vanno rinnovati in tempi brevi. La cassa integrazione scade per molte aziende a fine 2024, con il rischio che dall’anno venturo migliaia di dipendenti vengano licenziati. Ultimo punto, i dazi. La concorrenza sleale va contrastata senza se e senza ma. In un mondo di carnivori, ancor più aggressivi dopo la vittoria di Trump, una Europa “erbivora” è destinata a soccombere. Bisogna combattere, quindi, ma con la consapevolezza che politiche protezionistiche possono servire solo nel breve periodo e prevalentemente come strumento negoziale. Non usciremo da questa crisi nascondendo la testa sotto la sabbia. Questa è una sfida industriale e va affrontata come tale.