Leggi del Parlamento e
Circolari del CSM
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Chi conta di più?

Così il Ministro della Giustizia Carlo Nordio rintuzza le polemiche con l’associazione nazionale dei magistrati sulle prospettive di riforma della giustizia.

Il Ministro omette di dire che poi quelle stesse leggi le applicano i giudici e che, talvolta, ben più della legge contano le “circolari” attuative, in particolare quelle del Consiglio Superiore della Magistratura.

Quando una legge si separa dal suo autore viene affidata al giudice che dovrà applicarla, con esiti mai scontati.

Un esempio inequivocabile del distacco tra ciò che è scritto nella legge e ciò che è poi praticato può cogliersi nell’art. 37 del codice di procura civile secondo il quale, sino all’ottobre del 2022, “Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo.”.

Senonché la giurisprudenza, maneggiando gli alambicchi del giurista e combinando a suo piacimento i valori costituzionali, aveva stabilito che la celerità del processo è più importante del riparto tra le giurisdizioni e quindi se le parti ed il giudice non ne hanno discusso nel primo grado sulla relativa questione si forma il giudicato e non può essere trattata in quelli successivi.

Ecco una palese riscrittura di una norma di legge che andava quindi letta diversamente da come appariva, perché il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione risultava precluso dopo il primo grado di giudizio.

Ed è anche l’esempio di come il Legislatore sia spesso recettore passivo della volontà dei giudici, tanto che il corrispondente articolo del codice del processo amministrativo (art. 9 CPA), di emanazione successiva, contraddicendo il codice di procedura civile limita al primo grado del processo amministrativo il rilievo officioso del difetto di giurisdizione.

I giudici hanno quindi convinto il legislatore che l’articolo del codice di procedura civile diceva il contrario di ciò che vi era scritto. E ciò è stato infine riconosciuto con l’ultima stesura della norma processuale con la riforma del 2022.

Eppure non era affatto privo di senso che il Legislatore presidiasse le diverse giurisdizioni senza sbarramenti al rilievo d’ufficio dell’invasione di campo dell’uno o dell’altro giudice.

Un primo, severo, monito per il Ministro della Giustizia, dunque: dal sintetico resoconto appena offerto il Legislatore per non pochi anni è parso balbettare.

Passiamo, ora alle “circolari”, quelle del Consiglio Superiore della Magistratura, in particolare.

Alle circolari degli altri organi dello Stato (dai Ministeri in giù) la giurisprudenza di legittimità non riconosce un gran valore, posto che le stesse non vincolano gli estranei all’amministrazione e, soprattutto, “non costituiscono fonti di diritti ed obblighi” (così, ad esempio, Cass. civ. 1254/2019).

Perché quelle del CSM, invece, hanno un rango quasi pari a quello della legge?

Lo suggerisce la Corte di Cassazione con la pronuncia già citata laddove afferma che esse vincolano gli appartenenti all’amministrazione che le emana. In questo caso i diretti destinatari delle circolari del CSM sono i magistrati, giudici e pubblici ministeri, cioè i soggetti ai quali l’Ordinamento assegna il compito di applicare le leggi.

I giudici sono soggetti soltanto alla legge, ma sono anche vincolati dalle circolari del CSM, così va letto l’art. 101 della Costituzione la cui lettera appare alquanto reticente.

Ed ecco il secondo monito potenzialmente capace di mandare knock out il Ministro della Giustizia.

E’ di questi giorni la polemica infuocata che vede contrapposti i membri togati del CSM (i magistrati) a quelli laici (i nominati dal Parlamento) con in testa il vice presidente del CSM Fabio Pinelli, per via dell’approvazione di una circolare che regolamenta l’organizzazione degli uffici della procura della Repubblica.

Oggetto del contendere è stato il sovvertimento dell’organizzazione di quell’ufficio, da sempre spiccatamente gerarchico, nel senso di una più estesa partecipazione dei “subordinati” del procuratore della repubblica alle sue scelte, sia di carattere organizzativo che attinenti alla gestione delle singole indagini.

La causa di questa innovazione (oppure il pretesto, ciascuno si farà un’opinione) è da ravvisarsi, stando alla lunghissima relazione che precede il nuovo testo della circolare, in alcune disposizioni di legge di recente introduzione.

Esaminiamole.

Il CSM, che in precedenza si limitava a prendere atto dei progetti organizzativi predisposti dal procuratore della Repubblica è oggi chiamato a stilare principi generali ai quali il “capo” dovrà attenersi se vuole vedere, questa volta, “approvato” il suo progetto organizzativo.

Questa l’origine della nuova circolare con la quale il CSM (la sua maggioranza togata) ha inteso imporre obblighi al capo della procura che dovrà sentire i suoi subordinati nello stilare il progetto e disciplinare in modo diverso l’ipotesi della revoca dell’assegnazione del singolo procedimento al sostituto, a maglie più strette.

La sostanza del discorso del CSM è questa: poiché oggi comando io che ho il potere di dettare principi generali in materia organizzativa e di approvare i relativi progetti, ridisegno in senso meno “dispotico” i poteri del procuratore della Repubblica.

Ciò perché: la “designazione” del sostituto per ciascun procedimento è stata sostituita dall’“assegnazione” del procedimento; perché le indagini devono esser complete; perché si devono raccogliere prove anche a favore dell’indagato; perché per rinviare a giudizio serve una prognosi di condanna e non più soltanto la sostenibilità dell’accusa in giudizio.

Sia consentito notare che non si tratta di innovazioni e ove anche lo fossero non avrebbero mutato l’assetto dell’ufficio del pubblico ministero.

A meno di non voler affermare che in precedenza si giustificassero indagini incomplete; di voler dimenticare l’abusato ossimoro del PM come “parte imparziale”, originato proprio dall’obbligo di compiere indagini anche a favore dell’indagato, presente sin dall’entrata in vigore del codice di procedura penale. Quanto alla prognosi di condanna è nuova solo la formula, non la sostanza: era evidente a tutti, tranne che ad un’ostinata contraria giurisprudenza di legittimità, che l’accusa è sostenibile in giudizio sol quando essa possa condurre alla condanna dell’imputato. Per evocare una suggestione, l’azione penale somiglia all’azione di condanna civile. Un creditore che intenda avviarla non si domanda se le sue tesi appaiano sostenibili, ma si premura di avviare il giudizio solo quando il corredo probatorio lo rassicuri circa il buon esito della causa.

Ciò detto, appare piuttosto arduo che il legislatore abbia introdotto quelle disposizioni nella consapevolezza di intaccare l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero: tema che non era mai stato all’ordine del giorno, del quale non si era dibattuto pubblicamente, soluzione peraltro difficilmente attribuibile alle intenzioni di alcune forze della maggioranza parlamentare che approvò la riforma cd Cartabia. Verosimilmente manco se ne erano accorte.

Sta di fatto che quando in una materia coperta dalla riserva di legge (art. 108 Cost.), qual è l’ordinamento giudiziario, si lascia campo libero alla normazione a mezzo di circolare del CSM, un soggetto cioè che non è il Parlamento, si corrono seri rischi di fraintendimenti.

E se si determinano contrasti tra la legge e la circolare del CSM è piuttosto difficile che i magistrati siano inclini a far prevalere la prima.

Senza addentrarsi in tecnicismi inadeguati a questa sede, è degno di nota che il CSM con la circolare in materia di organizzazione delle procure della Repubblica abbia introdotto un istituto del tutto sconosciuto alle leggi ed ai codici.

Si tratta della “rinuncia” del sostituto procuratore all’assegnazione del procedimento ad opera del suo capo, quando sussistano contrasti sulle sue indicazioni.

Costituisce un unicum, una singolarità degna di nota nel panorama dell’ordinamento, processuale e non solo, capace di condurre alla paralisi dell’ufficio nel silenzio della legge.

Perché se le motivazioni del rinunciante dovessero essere condivise e fatte proprie dai suoi colleghi (i sostituti procuratori) nessuno svolgerebbe le indagini, il Capo dovrebbe farsele da solo.

È piuttosto evidente l’invasione di campo operata dalla circolare: ciò che per qualsiasi pubblico ufficiale riluttante rispetto al compito assegnatogli (salva la sua manifesta illiceità) integrerebbe i presupposti per un’imputazione di reato (art. 328 cp) diviene una semplice diversità di vedute tra il sovraordinato ed il sott’ordinato, quando protagonisti del contrasto siano dei magistrati inquirenti.

Inedito che una circolare del CSM sia legittimata a porre nel nulla un simile, gravissimo e potenzialmente paralizzante, conflitto del quale restano occulti i termini, dato che nel fascicolo del procedimento non deve essercene traccia.

Stona rispetto alla “trasparenza amministrativa” sbandierata sui siti web di molte procure italiane la previsione secondo la quale “Gli atti relativi alla rinuncia non fanno parte del fascicolo di indagine e sono custoditi in un fascicolo riservato presso la segreteria del procuratore della Repubblica.”.

In definitiva la rilevante contrazione dei poteri del procuratore della Repubblica verso i sostituti è all’origine dello scontro, potrebbe dirsi senza esclusione di colpi, che ha visto contrapporsi il Vice Presidente del CSM Pinelli ai componenti togati dello stesso organo.

Il primo ha severamente criticato la circolare appena approvata; le correnti togate al CSM hanno replicato che in tal modo ha mancato di rispetto al Presidente della Repubblica in carica che, invece, avrebbe avallato l’iniziativa.

Può qui dirsi che non tutti gli argomenti spesi dal Vice Presidente del CSM sono condivisibili, apparendo, per così dire, ingenua la visione che assegna al capo della Procura virtù maggiori rispetto agli altri magistrati dell’ufficio, sovente più esperti di lui anche se non concorrono all’assegnazione di incarichi direttivi, sempre più appannaggio di giovani portabandiera della rispettiva corrente di appartenenza.

D’altro canto è degno di critica coinvolgere il Capo dello Stato (anzi, i capi dello Stato) in una polemica chiaramente politica.

La visione dell’ormai deceduto Presidente Giorgio Napolitano in tema di assetto del pubblico ministero è nota ed aveva incitato la gestione di alcuni importanti uffici innegabilmente energica, con direttive che si spingevano ad evitare la detonazione di indagini che potessero imbarazzare nell’imminenza di importanti manifestazioni d’interesse internazionale.

Contrapporvi una diversa visione, attribuendola all’attuale Presidente della Repubblica, è gesto né elegante né intelligente.

Perché la diversità di disciplina della circolare – un corpus giustinianeo se confrontato alle sparute disposizioni di rango superiore dalle quali ha origine – deve trovare base esclusiva nelle norme di legge, non nella diversa sensibilità del Presidente della Repubblica, visione ben oltre il presidenzialismo di cui comincia a discutersi.

D’altro canto, l’unanimità dei togati del CSM nel sostegno di questa iniziativa trova spiegazione nell’annunciata riforma che vuole introdurre la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e costituisce un tentativo di omologare il pubblico ministero alla giudicante, laddove il legislatore s’era limitato ad indicare l’esigenza di “allineare” le procedure di approvazione dei rispettivi progetti organizzativi.

Il pericolo di questa tensione, di questa aspirazione ad equiparare ciò che è diverso, è che prevalga, anche per la magistratura giudicante, l’indirizzo gerarchico, del quale il Legislatore offre ampi segnali nei più recenti interventi normativi, come quello che ha introdotto le “pagelle” sull’attività di tutti i magistrati, ridotti a scolaretti da bollare con valutazioni desolanti. Il CSM finge di non sapere che il più formidabile strumento gerarchico nelle mani del procuratore della Repubblica, così come del presidente del tribunale, è costituito dal “parere” che sono chiamati ad esprimere, ogni quadriennio, sulla professionalità dei magistrati del rispettivo ufficio.

A questa gerarchia che tutti accomuna, pubblici ministeri e giudici, non si sono registrate avversioni degne di nota, molto probabilmente perché lo stesso CSM è posto al vertice della relativa scala.

Non conta, cioè, che i giudici non abbiano superiori. Conta chi è il superiore.

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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