La giustizia è il secondo pilastro del PNRR. Il nostro Paese può contare su complessivi 2,6 miliardi, a fronte dell’impegno a ridurre i tempi di durata del processo e dell’abbattimento dell’arretrato. In particolare, entro la fine del 2024 c’è l’obiettivo di abbattere l’arretrato civile del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro il 2026 va ridotta la durata dei procedimenti civili del 40% e quelli penali del 25%. I calcoli sui progressi vanno fatti rispetto ai corrispondenti valori del 2019.
Perciò la riforma della giustizia, di quella civile e penale, dell’ordinamento giudiziario e del CSM, ha improntato l’opera portata avanti in modo determinato dalla ministra Marta Cartabia, nel segno dell’efficienza e delle garanzie.
Ora è tempo di chiederci a che punto siamo con la realizzazione degli obiettivi e se l’attuale Governo stia proseguendo sulla strada tracciata nella precedente legislatura.
Il primo monitoraggio successivo all’entrata in vigore delle riforme del processo civile e penale segnala la decisa riduzione della durata dei processi e l’accelerazione dell’abbattimento dell’arretrato. Si può affermare quindi che la strada intrapresa con le riforme stava dando i primi buoni frutti.
Su come proceda l’attuale Governo, il giudizio è purtroppo negativo. Ci saremmo attesi che la premier Meloni proseguisse traendo frutto dalla rendita lasciata dal governo Draghi, che aveva approvato le riforme con un largo consenso che comprendeva buona parte dell’attuale maggioranza e dell’opposizione.
Potevano completare le riforme, attuarle, attenderne gli effetti e mettere in campo eventuali correttivi, concentrandosi su ciò che serve alla giustizia e ai cittadini. E invece no. Dal suo insediamento, questo Governo ha intrapreso la strada della giustizia ideologica, del panpenalismo emozionale e delle bandierine politiche, che tanto male hanno fatto alla giustizia italiana.
Cosa c’era da fare? Stabilizzazione degli addetti agli Uffici per il processo, aumento degli organici, nuovi concorsi e riduzione dei tempi degli stessi, investimenti sull’edilizia giudiziaria e carceraria, riforma dell’ordinamento penitenziario, accompagnamento adeguato delle riforme in procinto di entrare in vigore e della digitalizzazione del sistema giustizia, solo per citare alcuni interventi necessari. E invece no. Alla Camera e al Senato sono stati fatti dei pericolosi passi indietro che metteranno a rischio le stesse risorse del PNRR.
In questi mesi hanno impegnato il Parlamento con l’introduzione di nuovi reati, come quello di rave, hanno inasprito la pena per l’uccisione dell’orso marsicano, ma non di quello trentino per non urtare la sensibilità dell’amministratore amico. A colpi di pacchetti sicurezza, di decreti legge “emozionali” come il Dl Caivano e di annunciate “riforme delle riforme”, mandano per la prima volta in carcere le donne incinte e i bambini al di sotto dell’anno di età, riempiono le carceri di minori e così stravolgono il fine del processo minorile, mettono bavagli all’informazione e fanno fare i test psicoattitudinali ai giudici.
L’abuso d’ufficio. Con l’abolizione non si è data una risposta agli amministratori pubblici, che invece hanno bisogno di una revisione del TUEL che tocchi la loro responsabilità civile, penale e contabile, su cui ci sono proposte del PD sia alla Camera che al Senato. In compenso si sono creati diversi effetti perversi. In virtù del vuoto creato, gli amministratori rischieranno di rispondere per reati ben più gravi; le direttive europee chiedono a tutti gli Stati membri di avere tali disposizioni nel proprio ordinamento e noi siamo gli unici che le tolgono; si è eliminato un cosiddetto ‘reato spia’ utilissimo nella lotta alla criminalità organizzata; soprattutto si è eliminata l’unica forma di tutela che i cittadini avevano contro l’abuso di potere. Non saranno più punibili il professore universitario che passa al proprio allievo le domande per fargli passare il concorso, il funzionario pubblico che non concede un’autorizzazione a un cittadino perché impegnato politicamente, o il medico che in ospedale fa pagare la visita che dovrebbe essere gratuita.
La prescrizione. Con la reintroduzione si dà un duro colpo all’accelerazione dei processi e all’abbattimento dell’arretrato. Questo Governo, che ha agito spogliando il Parlamento della propria iniziativa legislativa, al contempo abolisce l’istituto della improcedibilità che, con la sua sola previsione, aveva indotto gli uffici giudiziari alla profonda riorganizzazione che stava dando i suoi primi frutti. È finita nel vuoto la lettera appello al ministro Nordio dei 26 presidenti delle Corti d’appello italiane, che chiedevano che fosse almeno prevista una norma transitoria.
La separazione delle carriere. All’esame della Commissione affari costituzionali della Camera è una riforma che assolutamente non serve alla giustizia italiana e ai cittadini ma serve da bandierina per un pezzo della maggioranza. Dicono di volere un giudice “veramente terzo”, ma è da chiedersi dove finirà il Pm, se diventerà l’avvocato della polizia o se starà sotto l’esecutivo. In ogni caso si intaccano l’indipendenza e l’autonomia della magistratura e la separazione dei poteri, si supera il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e si lede il principio costituzionale per cui i cittadini sono uguali davanti alla legge.
Ora, la domanda chiave è come queste cosiddette riforme incidano sugli obiettivi del PNRR. E la risposta è: in nulla. Hanno impegnato per mesi le Camere in provvedimenti che quando non sono inutili sono dannosi. In sé e perché mettono a rischio il raggiungimento degli obiettivi e le stesse risorse del PNRR.