La separazione delle carriere dei magistrati è indubbiamente, nel campo delle riforme prospettate, quella che, più delle altre, sollecita accesi dibattiti ed opinioni decisamente contrapposte.
Alcune di esse, infatti, muovendo inizialmente dall’affermazione di inutilità della riforma e profetizzando il perdurare dei rilievi formulati, concludono con la dichiarazione di una sostanziale violazione del dettato costituzionale secondo cui “i magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107, 3° comma – Costituzione).
Considerazioni opposte, invece, traendo spunto dall’amara constatazione di una manifesta crisi di credibilità e fiducia nella magistratura da parte della pubblica opinione e lamentando ricorrenti condotte ed iniziative accentuatamente inquisitorie, invocano con la riforma la necessità di un intervento normativo a tutela della terzietà ed indipendenza del giudice rispetto al pubblico ministero.
L’enunciazione delle tesi formulate rileva innanzitutto come il dettato costituzionale, ancora una volta, si collochi come spartiacque di valutazioni che, pur condividendone il principio, esprimono per contro soluzioni tra loro inconciliabili. L’operato rinvio a previsioni costituzionali, data la rilevanza dei riferimenti, consiglia un’attenta disamina delle varie tesi, ai fini di esprimere su di esse un diniego o una condivisione chiara e libera da condizionamenti di sorta. Non sembra infatti che al dibattito in questione rimangano estranee valutazioni di carattere politico o influenze di carattere corporativistico o, ancor peggio, utilitaristico.
Il confluire, nell’approfondimento del dibattito delle diverse ispirazioni, conduce a ritenere che la negatività del problema risieda prevalentemente, se non esclusivamente, nella mancanza di una netta separazione tra Pubblico Ministero e Giudicante.
La riforma, si sostiene, contribuirebbe a realizzare in concreto la reale parità nel processo tra accusa e difesa, eliminando una inconcepibile anomalia del sistema, emergente sin dall’iniziale configurazione del ruolo del magistrato e quindi, sin dal momento dell’assunzione delle funzioni, perdurante tutta la carriera.
Una netta definizione e separazione delle carriere contribuirebbe anche a far miglior chiarezza nei rapporti tra Magistratura e Politica, ottemperando così al dettato costituzionale della terzietà ed indipendenza del giudice rispetto ad ogni forma di sollecitazione interna ed esterna.
Con riferimento al Pubblico Ministero, ribadita nei suoi confronti una chiara e decisa definizione della sua struttura, non più influenzata o favorita dalla comune ed organica collocazione con l’autorità giudicante, si definirebbero esattamente e correttamente le sue funzioni anche nei rapporti con le altre autorità e con l’opinione pubblica in generale.
Un prevalente e favorevole parere a tale riforma è stato anche espresso dall’Avvocatura che non riconosce nell’attuale procedura, nei comportamenti e nel concreto svolgersi delle rispettive autorità, soddisfacente attuazione del dettato costituzionale.
La riforma risolverebbe anche il disagio dei difensori chiamati a dare giustificazioni sulle lamentele provenienti dai loro assistiti, su percepiti sospetti di favoritismi del giudicante verso il requirente, considerati possibili a causa della comune appartenenza allo stesso organo istituzionale.
Al di là di tali sospetti e considerazioni, che potrebbero ritenersi limitate in quanto riconducibili non all’essenza del problema ma ad una condizione psicologica facilmente, ricorrente nel contesto di un giudizio, altre migliori argomentazioni sosterrebbero la necessità della riforma invocata.
La separazione delle carriere, come già detto, attuerebbe non solo la parità tra accusa e difesa ma garantirebbe, con più efficacia e correttezza, l’indipendenza del giudice esprimendone, compiutamente, la natura della funzione.
Ciò impedirebbe anche manifestazioni ideologiche e sospetti sia di tornaconto politico che giudiziario, dando completa attuazione alla norma del giusto processo (art. 111 Costituzione).
Verrebbero eliminati pure i negativi atteggiamenti e comportamenti inquisitori legati ad un’erronea interpretazione della funzione del Pubblico Ministero, conseguenzialmente l’attuazione della separazione delle carriere comporterebbe il separato accesso ai concorsi di ammissione alla Magistratura, nonché un diverso percorso formativo orientato sulla corretta natura delle funzioni da esercitare ed un autonomo organo di autogoverno.
In conclusione, secondo i sostenitori della riforma, verrebbe di fatto realizzato ciò che parrebbe già essere implicito nella stessa natura istitutiva dell’Ordine Giudiziario, sostanzialmente impedito invece con la commistione dei ruoli.
Per altro verso sono stati pure prospettati, come già si è detto, pareri non uniformi da parte della Magistratura. Le obiezioni alla separazione, sollevate in relazione alla proposta di riforma, hanno fatto leva sul principio costituzionale affermato dall’art. 107, c. 3°, Cost. Si è infatti sostenuto che un’interpretazione dell’articolo richiamato, orientata verso forme di modifica del dettato costituzionale, contrariamente al ricercato intento, costituirebbe invece violazione del principio di indipendenza e terzietà già richiamato. La violazione della norma costituzionale poi non esaurirebbe completamente la negatività della riforma, postulando ulteriori modifiche, non apertamente indicate, ma implicitamente conseguenti.
La diversa o se si vuole puntuale configurazione delle funzioni del pubblico ministero comporterebbe una differente definizione dell’azione penale, non più collegata al dovere ed obbligatorietà di un su esercizio, ma alla discrezionalità di una scelta, affidata a previsioni ed indicazioni formulate da soggetti diversi da Legislatore.
Tale modifica evidenzierebbe una nuova formulazione del potere punitivo dello Stato nei processi, non più ancorato al dettato di una norma anteriormente scritta, ma a scelte valutative temporalmente considerate come necessarie ma non sorrette, in quanto tali, dal principio di uguaglianza di tutti i cittadini.
A sostegno della riforma ed a superamento dell’eccezione richiamata si è affermato, come possibile, anche la procedura di riforma della norma costituzionale. Contro tale richiamo si potrebbe obiettare che la Costituzione italiana, pur essendo a forma rigida, consente interventi di modifica. Questi però, si ribatte, non possono consentire una diversa lettura dei suoi principi ispiratori. Pertanto va riconosciuto che quando la Carta Costituzionale, con decisa e nitida affermazione, ha indicato nella diversità di funzioni dei magistrati la sola ed unica possibile distinzione ha, di conseguenza, rifiutato sull’argomento qualsiasi ipotesi alternativa.
La generale esposizione delle modifiche proposte, in ragione della molteplicità degli interventi e della rilevanza degli argomenti e contrapposizioni, rende necessario riflettere su ognuna di esse.
In ogni sistema democratico, come si è detto, ogni espressione di idee sollecita e produce formulazioni di valutazioni contrapposte. Sono queste la migliore indicazione della maturità e civiltà di un popolo. Esse infatti, mediante il loro confronto, conferiscono alle soluzioni adottate quei requisiti di trasparenza del percorso formativo, certezza delle volontà espresse, sicurezza della ricerca del bene comune.
A seguito di tale precisazione e con riguardo all’argomento in esame, richiamando le considerazioni e le perplessità espresse con le diverse tesi, sembra illusorio ritenere che la sollecitata riforma possa raggiungere in concreto il traguardo voluto.
Non sembra certo infatti che il rapporto tra Politica e Magistratura possa evitare del tutto percorsi suggeriti da personali interessi e dalla ricerca di un reciproco conseguimento del potere. Gravi e precedenti episodi hanno infatti posto in rilievo come la politica spesso ricerchi nella Magistratura la possibilità di utilizzare percorsi giudiziari per proprio tornaconto e per risolvere conflitti interni o personali affermazioni. Esempi analoghi a quelli prima ricordati hanno denunciato come la Magistratura, a sua volta, abbia ricercato, attraverso l’avvalimento di diretti rapporti e conoscenze, la possibilità di facilitazioni di carriere, conferimento di incarichi anche politici, utilizzando il sistema delle cosiddette “porte girevoli”. Tali episodi, di fatto, sembrano maggiormente derivare da negative scelte e comportamenti di singoli soggetti, piuttosto che considerare la separazione delle carriere dei magistrati come la loro causa.
La modifica della diversa configurazione delle funzioni giudicante e requirente non sembra essere decisiva nell’ostacolare o il verificarsi di comportamenti inammissibili, quanto meno sotto il profilo morale.
La riforma in esame riguarda infatti non solo i rapporti tra la Magistratura e le Autorità esterne, ma anche i rapporti interni tra la funzione giudicante e quella requirente, caratterizzati da sospetti di una benevola ed illecita complicità tra giudicante e requirente, favorita dalla comune appartenenza all’Ordine Giudiziario. Un tale rilievo, secondo l’Avvocatura, comporterebbe una sostanziale svalutazione del ruolo della difesa. A ben vedere però, tale rilievo sembra essere smentito dalle numerose modifiche introdotte con l’intento di rafforzare il ruolo della difesa. Le varie motivazioni che sorreggono la proposta di riforma, pur muovendo dunque da un dichiarato e lodevole miglioramento dell’amministrazione della giustizia, non sono rimaste indenni da riserve e complessità. Queste, come si è visto, hanno sollevato temi riconducibili ad eccezioni di costituzionalità, di trasparenza delle procedure, di garanzia e certezza del diritto che espandono il dibattito senza risolverlo. Un tale contrasto non proponendo tranquillizzanti e decisive soluzioni, pone l’interrogativo dell’utilità dell’iniziale proposta tanto più se riferita anche all’eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale e dalla conseguente perseguibilità dei reati basata non sulla previsione normativa ma su criteri, di volta in volta, indicati dal Consiglio Superiore della Magistratura o, ancor peggio, dall’Autorità Politica.
I criteri indicati, di per se stessi, negano rilievo alla modifica proposta. Con essa infatti, la certezza del diritto sarebbe condizionata da scelte non legate alla sola obbedienza alla legge ma a richieste del potere politico.
Come potrebbe, inoltre, esser scongiurata la paventata dipendenza della magistratura giudicante da quella requirente, basata su valutazioni che devono esprimere solo la libera, indipendente espressione del proprio convincimento? Sarebbe infatti un errore ritenere che la causa della carenza lamentata risieda nelle norme giuridiche e non invece nella umana natura, purtroppo spesso viziata da negativi e prevaricatorii comportamenti.
Sono questi infatti a determinare le illiceità lamentate.
Le motivazioni della riforma in esame sembrano tutte aver riguardo solo ad impedire alcuni degli aspetti, trascurando di eliminarne le cause riconducibili alla volontarietà delle scelte.
La somministrazione in medicina di un analgesico elimina il dolore, ma non la sua causa!
E dunque, nel soffermarsi e nel corretto definire compiti e poteri delle parti processuali, la soluzione del problema.
L’intervento del Legislatore dovrebbe essere rivolto non a proposizioni di parziali e limitati rimedi, ma a più profonde risoluzioni, richiamando il rigore morale indicato dalla Costituzione per tutti i soggetti indicati dalle norme di legge.
Si rispolveri dunque il potere-dovere di controllo per coloro che sono chiamati a funzioni direttive, e questi ne rispondano con concrete assunzioni di responsabilità e rigorosa osservanza del concetto e ruolo di parte.
Solo nella corretta interpretazione del ruolo di “parte” sembra infatti individuarsi il principio della terzietà del Giudice ed il ruolo del Pubblico Ministero quale difensore della generalità di tutti i cittadini e, come tale, portatore dei loro interessi.
Eguali adempimenti riconducono ai vari soggetti di volta in volta indicati dalle disposizioni di legge.
La separazione delle carriere potrebbe pure, nei casi lamentati, comportare l’eliminazione di un ritenuto sospetto di subdola collusione tra i due ordini professionali, ma non ne impedirebbe, “ex funditu” la possibilità, in quanto legata a manifestazioni e cause più fondate.
Non sembra infatti che la configurazione del magistrato super poliziotto e grande inquisitore, proposto dalla stampa alla credulità e fantasia popolare, possa essere eliminata con il rimedio sollecitato, né con essa verrebbero correttamente interpretate le funzioni attribuite alla legge.
Il diritto di un ordine democratico non ha bisogno di personaggi alla “Torquemada”, ma solo di un sistema che sappia elaborare, nel corretto esercizio delle funzioni svolte dai titolari di esse, le condizioni e le decisioni da assumere.
In conclusione sull’argomento sovviene il profondo insegnamento che Parini fa rivolgere dal centauro Chirone al suo allievo: “e d’uopo Achille, alzar nell’alma i primo altare”.