Nessuna delle misure legislative di recente elaborazione è liberale o illiberale in sé. Sono, quantomeno, bifronti.
Si consideri l’abrogazione del delitto di abuso d’ufficio.
Da adottare al dichiarato fine di sollevare gli amministratori pubblici dal timore d’essere coinvolti in accertamenti penali, lascia, platealmente, i cittadini sprotetti dall’abuso di potere.
Per fare un esempio banale, ma che rende l’idea, si è registrato, guarda caso proprio dopo la ventilata ipotesi dell’eliminazione dello spauracchio dell’abuso d’ufficio, un abnorme uso dei sistemi di rilevamento elettronico delle infrazioni al codice della strada, spesso impiegandoli ben al di là delle autorizzazioni prefettizie e quindi per contestare qualsiasi violazione, anche se quell’apparato doveva servire a sanzionare solo il passaggio col rosso.
Le nostre città sono diventate occhiute, siamo costantemente osservati anche per condotte bagatellari per le quali il ricorso a strumenti così invasivi non sarebbe permesso. Prevale l’interesse a far cassa, a scapito dei malcapitati.
Altra innovazione in discussione in questi giorni è quella che, sempre sotto l’effige di un garantismo di facciata, prevede il divieto di pubblicare le ordinanze impositive di misure cautelari personali penali.
In buona sostanza nessuno saprà, nel dettaglio, perché un cittadino è stato privato della sua libertà. La violazione del divieto di pubblicazione sarà a sua volta penalmente sanzionata.
In nome della presunzione d’innocenza, sfuggirà al controllo dell’opinione pubblica l’esercizio del potere più penetrante che lo Stato esercita sui cittadini o forse, a questo punto, sudditi: la privazione della libertà personale.
È un’ipocrisia molto pericolosa.
Senza esageratamente evocare il ricorso a simili tipologie di “segreto” ad opera di dittature che hanno partorito il fenomeno dei cd. desaparecidos, si deve ricordare che alla presunzione di innocenza rinuncia proprio lo Stato nel momento in cui è costretto ad ammettere la restrizione della libertà personale prima ancora di una sentenza di condanna scaturita da un giusto processo.
Sono i “gravi indizi di colpevolezza”, infatti, il presupposto (con altri) per l’adozione di qualsiasi misura cautelare penale.
E quindi anche il “presunto innocente” patisce, legalmente, la limitazione della sua libertà personale quando ciò sia giustificato dall’esigenza di proteggere gli altri dal rischio di reiterazione del reato, prima d’ogni altra cosa.
Ma proprio perché si tratta di un potere eccezionale, da esercitare dentro confini strettissimi, è necessario che su di esso vigili costantemente l’opinione pubblica, correttamente informata.
A garanzia, innanzi tutto, proprio del soggetto privato della sua libertà che recide, forzatamente, ogni suo contatto col mondo esterno.
Potrebbe egli stesso voler gridare la propria innocenza, invocare il pubblico sdegno per il torto subito, ma non risulta che la legge in fieri preveda una deroga al divieto di pubblicazione del provvedimento restrittivo quando a volerla sia lo stesso indagato.
La durata del divieto è tutt’altro che trascurabile, se si considera che la conclusione delle indagini può farsi attendere anche per anni.
Sicché i plausi, che pure non mancano, alla misura normativa – che dilatando l’area del non pubblicabile inevitabilmente comprime la libertà dell’informazione – sembrano curarsi della sola ipotesi del cittadino che voglia nascondere la sua vicenda al pubblico ed abbia magari i mezzi per farne fluire un resoconto parziale o comunque manipolato, restando occultata all’opinione pubblica proprio la “fonte” delle notizie. Trascura del tutto, tuttavia, la funzione di controllo che l’opinione pubblica svolge a tutela dei più deboli, quelli privi della capacità di far sentire la propria voce.
Quale sarà la prossima misura “liberale e garantista” non è dato di sapere. A preoccupare, come sempre, è la faccia nascosta della medaglia.
Ora, appare piuttosto singolare che proprio il fautore dell’emendamento, l’Onorevole Enrico Costa, a dispetto della presunzione d’innocenza, veda colpevoli ancor prima di un processo.
La vicenda delle nomine dei componenti del Consiglio direttivo della Scuola Superiore della Magistratura si trascina da diverso tempo senza essere giunta a risultati concreti, se si eccettua l’immotivata esclusione di molti aspiranti (depennati dalla lista dei papabili, così, senza un motivo scritto).
Se il Ministro della Giustizia ha da poco nominato la sua quota di componenti, il Consiglio Superiore della Magistratura annaspa ancora nella fase delle doglie preparto, sebbene i nascituri componenti del nuovo Comitato direttivo non sembrino mostrare segni di sofferenza, per così dire, prenatale, essendo da molto tempo abbastanza sicuri di venire, comunque, alla luce.
Il consigliere superiore Andrea Mirenda ha, infatti, segnalato pubblicamente che tali ritardi appaiono tanto più ingiustificati se si tiene conto che le decisioni sui nominativi dei “predestinati” risalgono a molto tempo addietro, addirittura a prima dell’estate scorsa, e corrispondono all’usuale criterio spartitorio in uso al CSM, vale a dire che i prescelti rappresenteranno una quota corrispondente al potere di ciascuna corrente.
Criterio del resto in passato addirittura esplicitato nella relativa delibera del CSM, sebbene poi cassata dal Consiglio di Stato.
Ebbene, a fronte della cronaca di ciò che ordinariamente accade al CSM, stigmatizzato da più Presidenti della Repubblica e raccontato al grande pubblico da Luca Palamara – l’uomo che da solo faceva “Sistema” – l’onorevole Costa ipotizza che uno tra il consigliere Andrea Mirenda ed il Consiglio Superiore della Magistratura meriti d’essere indagato, anche se non si sa bene perché a Perugia.
Secondo fonti giornalistiche, infatti, l’Onorevole Costa avrebbe interrogato il Ministro della Giustizia Carlo Nordio in questi termini: “Se sia a conoscenza di iniziative giudiziarie avviate dal Csm a tutela dell’immagine e della reputazione, nei confronti del consigliere Mirenda, ovvero di procedimenti penali avviati dalla procura della Repubblica di Perugia in relazione a tale procedura di evidenza pubblica”.
È agevole osservare che, anche se venissero arrestati il consigliere Mirenda o l’intero CSM, gli italiani – grazie all’emendamento cd. Costa – non ne conoscerebbero compiutamente i motivi, non essendo più pubblicabile il provvedimento cautelare.
E comunque “il Parlamento non è un tribunale!”, tuona lo stesso Onorevole Costa, quando altri osino interrogare un Ministro su vicende giudiziarie afferenti al suo dicastero.