Il presente complesso scenario internazionale accresce la instabilità del quadro economico con le questioni europee ed italiane afferenti gli approvvigionamenti energetici, il perdurare, pur se con miglioramenti, del tasso di disoccupazione, le disparità tra nazioni dell’Eurozona, elementi che compongono il contesto su cui si staglia la proposta di riforma della Governance Europea con le regole del Patto di stabilità e crescita, attualmente sospese e che torneranno in vigore il 1 gennaio 2024.
Ho avuto l’onore e l’onere di essere relatore in seno alla Commissione bilancio del Senato della Repubblica di tale importante e complesso provvedimento che sottende ad un negoziato difficile.
Sono stati affrontati in plurimi contesti istituzionali i nodi relativi alla difficoltà di ricorrere alla revisione dei Trattati e il percorso di riforma proposto dalla Commissione non prevede una modifica degli stessi, ma un intervento sul diritto derivato e sull’attuazione delle regole. Tuttavia, anche con la presente visione riduzionistica prospettata, i dissidi tra i paesi fondatori dell’Unione risultano complessi da comporre.
Si prende atto, nella prospettazione della bozza di riforma, del ritmo irrealistico di riduzione del debito pubblico richiesto secondo la regola del 5% all’anno, che ecceda rispetto al limite del 60% e in modo non del tutto coerente; la riforma viene impostata esclusivamente per correggere gli squilibri economici, salvaguardare la solidità delle finanze pubbliche in un’ottica di maggiore sorveglianza economica esercitata da Commissione e Consiglio.
In tale ambito, la Commissione acquista, a scapito del Consiglio, maggiore discrezionalità regolatoria, autorizzatoria e negoziale, nonostante quanto configurato dall’art. 121 TFUE in materia di attribuzione primaria del Consiglio.
Da che è sorta l’eurozona si è registrata una bassa crescita e, a fronte della stessa, l’attenzione si è appuntata sull’esigenza di dare priorità ad una composizione della spesa, che aumenti la crescita e la resilienza che sarebbe data dal perseguire riforme ed investimenti in ambito di transizione verde e digitale, difesa e sicurezza energetica. Tale scelta di politica industriale, one size fits for all, non considera la specializzazione creatasi nell’Unione, di natura economico-industriale e ciò non converge con il quadro semplificatorio che si vorrebbe imprimere alla riforma.
Emerge che la Commissione, prendendo a riferimento l’esperienza dei PNRR, propone di porre piani nazionali di bilancio e strutturali a medio termine, con cui gli Stati membri dovrebbero definire i propri impegni di bilancio, di riforma e di investimento, all’interno di un quadro comune dell’UE che si manifesta prevalentemente in forniture e quindi in spesa corrente, mentre andrebbero di contro tagliati elementi quali i servizi essenziali resi ai cittadini come statuito nella Suprema Carta costituzionale quali sanità, trasporti, scuola, manutenzione, protezione civile, ponti, pubblica sicurezza, ecc.
L’art. 120 TFUE rischia di essere violato, se si uniscono la sostenibilità delle finanze pubbliche con politiche industriali non ridiscutibili, in quanto il rispetto di una “bilancia dei pagamenti sostenibile” è ciò cui deve essere improntata la politica economica e monetaria.
Ciò che deve poi essere centrale nella presente valutazione, in un’ottica di sostenibilità del debito che dovrebbe generare crescita sostenibile ed inclusiva, è che non si debba e non si possa incorrere in una riedizione dell’idea di “austerità espansiva”. Purtroppo l’esperienza dell’eurozona ha infatti chiarito che la crescita è a lungo scomparsa e il debito in rapporto al PIL è aumentato.
Si era già manifestata, con riguardo alla precedente bozza di regolamento, che la classificazione degli Stati derivante dall’analisi di sostenibilità del debito, genera un effetto restrittivo nelle condizioni di accesso al mercato, andando così a rafforzare il fenomeno noto come spread e ciò accresce piuttosto che attenuare la divergenza tra paesi europei. Criticità analoghe si riscontrano nella formulazione del MES.
In tale quadro, non appare consequenziale quanto statuito in merito al fatto che ciascuno Stato debba stipulare un accordo entro linee guida precise afferente il Piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine atto a conseguire il principale obiettivo di una stabile decrescita del debito pubblico.
La sorveglianza dei Piani si basano sull’indicatore della “spesa pubblica primaria netta” declinato in tetti invalicabili annuali e, in caso di loro violazione automatica attivazione della procedura di infrazione per debito eccessivo.
Alla luce della tabella emanata dalla stessa Commissione, si evince che per uno Stato come l’Italia, con elevato rischio di sostenibilità, il livello di consolidamento fiscale, ove la durata del Piano sia di quattro anni, sia di circa 0,85 punti del PIL all’anno, (circa 18 miliardi sull’attuale PIL) nel caso di estensione per sette anni, si attesterebbe sullo 0,43 % (circa 9 miliardi) del PIL.
Rispetto all’enfatizzato concetto di ownership dei Piani da parte dei Paesi, il Piano, concordato o meno, in base all’ “assestment framework” stabilito dalla Commissione, le procedure di deficit o debito eccessivo, saranno comunque automaticamente attivabili e ciò nega che da parte di ogni Stato permanga la disponibilità dei propri interessi fondamentali sociali, economici, fiscali.
Elemento su cui ci si era soffermati è che non sia previsto un criterio di esenzione degli investimenti dal calcolo del disavanzo annuale, nonostante quanto previsto espressamente dall’art. 126, paragrafo 3, seconda parte, TFUE.
Con riferimento ai poteri e strumenti di intervento della BCE, non si riscontra una equiparazione normativa, ai fini dell’attivazione dei poteri della BCE, tra la stabilità dei prezzi e l’importanza dei livelli di occupazione “dual mandate”, né una mitigazione del regime di divieto di bail-out.
Continueremo a rappresentare le evidenti criticità che derivano da una riforma che rischia di portare l’Unione Europea nella direzione di attenzionare la stabilità senza tuttavia favorire alcuna crescita economica, ma senza crescita viene meno anche la stabilità.
Non smetteremo di chiarire, in ogni tavolo opportuno, la posizione espressa, con la statura che l’Italia, quale grande Nazione, può e bene sa esprimere.