Riflessioni sul preoccupante relativismo giuridico

Il Ministro della Giustizia non è apparso per nulla preoccupato se il suo dicastero rischia di diventare un colabrodo di dati riservatissimi.

Le uniche reazioni di origine governativa – che ne ipotizzano, more solito, una colorazione politica avversa – prendono di mira il provvedimento col quale il giudice per le indagini preliminari, in disaccordo con la procura, impone il processo per le dovute verifiche.

Non risultano sussulti ministeriali, benché l’ipotesi di strafalcioni in diritto riferibili a due magistrati potessero sollecitare una certa apprensione al dicastero della Giustizia.

Accade che a Brescia un pubblico ministero chieda, dopo il dibattimento, l’assoluzione di un cittadino del Bangladesh perché l’unico atto violento verso la moglie (uno schiaffo) risultato provato nel processo – nell’arco di una convivenza di anni – da un lato non integrava il delitto di maltrattamenti in famiglia che richiede una pluralità di condotte offensive ripetute nel tempo e, dall’altro lato, l’atteggiamento prevaricatore sarebbe stato espressivo della “cultura” d’origine dell’imputato, circostanza che gli avrebbe precluso di cogliere il disvalore della sua condotta secondo le leggi italiane.

Eccolo, finalmente, un errore di diritto imperdonabile! Del pubblico ministero prima ancora che del bengalese.

In rapida successione il Ministro della Giustizia, esponenti politici di ogni colore, persino lo stesso Procuratore della Repubblica di Brescia, esprimono tutto il loro sconcerto per l’inaudita richiesta assolutoria.

E giù un coro di banalità: la legge è uguale per tutti, l’ignoranza della legge penale non scusa, più formazione per i magistrati.

Una lettura alquanto rozza dell’art. 3 della Costituzione, perché essere uguali davanti alla legge non vuol dire trascurare le inevitabili diversità da persona a persona.

E quindi da un sottosegretario alla giustizia o da un magistrato potrà pretendersi una conoscenza della legge italiana ben maggiore di quella che ci si aspetta da un bengalese.

Nella “formazione” dei penalisti è ben saldo il principio per cui “La valutazione dell’inevitabilità dell’errore di diritto, rilevante ai fini dell’esclusione della colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo.” (così una pronuncia della Corte di Cassazione penale, n. 8410 del 2017).

Una premessa, per escludere letture devianti di quanto appresso si dirà: lo schiaffo, da chiunque a chiunque dato, è un reato (percosse, art. 581 c.p.) e come tale va perseguito, se non ricorrono cause di giustificazione o di esclusione della pena.

Quello trattato nel processo bresciano è un tema giuridico, potremmo dire basilare dal momento che nessuno studente che lo ignori supererebbe l’esame di diritto penale.

Ed ogni penalista sa che dopo una storica pronuncia della Corte Costituzionale (la n. 364 del 1988) l’inevitabilità dell’errore sulla legge penale è sopravvissuta, nella giurisprudenza di legittimità, proprio nel limitato campo dei reati c.d. culturali, dei quali autore sia un soggetto di etnia, cultura, religione profondamente diverse da quella italiana e, più in generale, “occidentale”.

E quindi non gli si può rimproverare l’inconsapevolezza dei valori violati per essersi attenuto a quelli d’origine (può vedersi, ad esempio, Cassazione penale, n. 29613 del 2018).

Al giudice di Brescia il compito di vagliare il caso concreto sottoposto al suo esame. Quello che deve essere chiaro è che a Brescia si sta svolgendo un processo penale nel pieno rispetto delle norme, di quelle italiane non di quelle del Bangladesh.

Un gusto retrivo, semmai, si scorge nella veemenza delle interferenze che dall’esterno piovono su quel processo.

Perché il parere del Ministro della Giustizia non deve influenzare chi è chiamato a sentenziare.

Ad aver bisogno di “formazione” è, purtroppo, larga parte del ceto politico del Paese.

La pubblica dissociazione del procuratore della Repubblica di Brescia dall’operato del suo sostituto – della cui opportunità si può dubitare – se da un lato ha avuto l’effetto di tranquillizzare il Ministro della Giustizia, dall’altro lato ha manifestato quanto fastidiosa debba apparire l’ultima esile frontiera dell’autonomia del sostituto procuratore rispetto alla gerarchia del “capo”: solo nell’udienza il sostituto procuratore fa ciò che ritiene giusto secondo legge (art. 53 cpp), senza essere vincolato all’osservanza degli ordini del Procuratore della Repubblica, graditi al Ministro.

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

© Copyright 2024 | Dimensione Informazione
Tutti i diritti riservati

Privacy Policy Cookie Policy Cambia preferenze

Contatti:
Viale Giuseppe Mazzini, 134 - 00195 Roma
Telefono: 06.37516154 - 37353238
E-mail: redazione@dimensioneinformazione.com