L’incremento degli sbarchi dei migranti sulle coste italiane rappresenta, per il governo Meloni, una delle principali sfide congiunturali, in primo piano nell’attenzione mediatica e oggetto di crescente preoccupazione nell’opinione pubblica. Tema divisivo per eccellenza tra gli schieramenti politici, soprattutto da quando è decollato da noi il bipolarismo dell’alternanza, l’immigrazione ha suscitato, anche nelle ultime settimane, roventi polemiche tra maggioranza e opposizione e, talvolta, anche tra le stesse opposizioni di diverso colore. Il numero delle persone approdate negli ultimi mesi e la continuità degli sbarchi, soprattutto nell’isola assai gravata di Lampedusa, palesano la persistenza di un fenomeno ormai cronico, o, come dicono alcuni, strutturale, non episodico, legato a diversi fattori, alcuni legati a condizioni drammatiche di violenza, sopraffazione e persecuzione, altri ad una estrema ed intollerabile precarietà di carattere economico o ancora alla desertificazione e alle pandemie, che pure mettono seriamente a repentaglio le possibilità di sopravvivenza. In alcuni casi, poi (come si evince dalla vicenda narrata dal film, assai riuscito, di Matteo Garrone), la prospettiva dell’esodo verso l’Europa dei diritti e delle opportunità risponde alla speranza diffusa, soprattutto nel continente africano, di elevazione sociale e di una vita qualitativamente migliore. Un fenomeno strutturale che deve avere come riscontro politiche strutturali.
Da tempo, al riguardo, appare evidente che una tendenza di tali dimensioni avrebbe dovuto essere assunta come priorità delle politiche dell’Unione Europea, proprio perché investe il presidio di una frontiera europea (le coste italiane e Lampedusa, nella fattispecie) e perché i migranti stessi che arrivano in Italia sono alla ricerca dell’Europa più ancora dell’Italia stessa e spesso non intendono fermarsi nel nostro paese, ma raggiungere altri paesi europei. Di questa esigenza di coinvolgimento dell’Unione Europea, nel suo complesso, sembra che ormai, sia pure tardivamente, si sia ingenerata una consapevolezza comune o comunque diffusa, tanto nell’Unione, quanto nel nostro paese, pur nelle diverse sfumature politiche. La premier Giorgia Meloni sta cercando con impegno e tenacia di rafforzare la solidarietà tra i partners europei e già diversi segnali sembrano confortare queste sue fatiche. La riunione di Granada tra Ue, Albania, Francia, Italia, Gran Bretagna e Paesi Bassi ha individuato i contenuti di un’intesa su alcuni punti che investono, in particolare, gli accordi con gli Stati di provenienza, la mappatura delle imbarcazioni e lo screening dei flussi. E lo stesso Consiglio europeo informale ha evidenziato un consenso diffuso sulla necessità di fermare le partenze e sull’esigenza di cooperazione tra i Paesi membri, salvi i consueti distinguo. È un passaggio che deve preludere a politiche congiunte di più ampio respiro. Viene posto con insistenza il tema della lotta ai trafficanti, alle organizzazioni che speculano sui viaggi della speranza ed è certamente una questione che va affrontata, ma il traffico è la conseguenza dell’intensità del fenomeno, la domanda di trasferimento al di fuori delle vie regolari offre inevitabilmente l’occasione di allestire traffici illeciti e clandestini. La repressione del traffico illecito, per quanto giusta e necessaria, non può rappresentare la soluzione decisiva della crisi, perché il fenomeno tenderà facilmente a riprodursi, in virtù della persistenza o dell’incremento delle spinte migratorie. Il tema non investe soltanto l’esigenza di misure di intelligence o di polizia. È questione politica, questione epocale. Accordi con i paesi di provenienza devono prevedere aiuti e cooperazione con tali paesi, incentivi adeguati alla permanenza nel proprio paese. E, nello stesso tempo, considerando, da un lato, le esigenze di solidarietà, dall’altro l’obiettiva necessità per i nostri sistemi sociali e produttivi dell’apporto dei migranti, si rende necessaria una programmazione dei flussi, d’intesa tra Unione Europea e paesi di provenienza, che tenga conto della capienza, dell’offerta di lavoro e di formazione e, naturalmente, delle dimensioni della domanda di migrazione, della possibilità di offrire adeguati modelli di integrazione. Aggiornando le normative, una legge come la Bossi-Fini, ad esempio, è fin troppo datata, occorre immaginare procedure meno farraginose e selettive, facilitando i percorsi in condizioni di regolarità. Ma deve trattarsi di flussi pianificati, concordati. L’integrazione e l’offerta di occupazione non possono produrre effetti virtuosi nei confronti di una migrazione clandestina, spontanea e non regolata, affidata ai barconi precari, esposti agli incidenti e alle tragedie del mare. Quelle migrazioni che possono essere assorbite devono rispondere a piani ben precisi, concordati in sede europea, senza egoismi o furbizie scaricabarili. Ciò che non possiamo, invece, offrire sui nostri territori deve essere integrato in termini di cooperazione, un grande piano per l’Africa, sotto i profili sanitario, produttivo, ambientale e infrastrutturale, con particolare riferimento all’acqua. Senza dimenticare una più equa distribuzione delle risorse, in taluni campi (minerario, in particolare) assai cospicue.