Malgrado le iniziative in corso, la pace sembra ancora lontana: tuttora bellicose e apodittiche le dichiarazioni, anche sul fronte occidentale; tassative le promesse a Zelensky di appoggio militare “fin quando sarà necessario”; ininterrotto l’invio di armi. Il Presidente ucraino, del resto, che ha vietato per decreto ogni forma di negoziato, conferma di voler recuperare tutti i territori occupati, e ha detto al Papa che del Vaticano (quante divisioni ha il Vaticano?) non c’è alcun bisogno.
Nel frattempo, però, gli Stati Uniti guardano al possibile ruolo pacificatore della Cina e valutano di lavorare con Pechino per mediare tra Kiev e Mosca. La relativa apertura di Washington segue il colloquio telefonico di fine aprile fra Xi Jinping e Zelensky, e si collega alla missione a Kiev e a Mosca dell’inviato cinese, Li Hui. Intanto, e benché Zelensky l’abbia pubblicamente dichiarato non necessario, procede il tentativo negoziale della Santa Sede affidato al cardinale Matteo Maria Zuppi, mentre si propongono per la pace anche il Brasile. l’Indonesia e un gruppo di paesi africani guidati dal Sudafrica.
Si muove quindi qualcosa sotto la superficie delle dichiarazioni e della propaganda? Difficile dirlo adesso, perché trattative del genere sono sempre lunghe, attendiste, discrete, e solitamente velate da atteggiamenti e dichiarazioni intransigenti; come al G7 di Hiroshima, da cui è emerso ancora una volta l’incondizionato sostegno all’Ucraina dei leader partecipanti; come al vertice di Chisinau della Comunità Politica Europea, dove tuttavia le perentorie richieste ucraine di adesione a Unione Europea e Nato non hanno trovato sostanziale accoglimento, se non in linea di principio. Nella nebulosa delle varie iniziative e delle coriacee posizioni espresse dalle parti in causa, nessuna delle proposte negoziali sul campo sembra essere sufficiente: appare motivata soprattutto da intenti umanitari quella vaticana, mentre quelle di Brasilia, Jakarta e Pretoria sembrano per lo più volte a un posizionamento politico finalizzato a non rimanere ai margini dell’affare del secolo. Ciascuna di queste azioni potrà costituire un’utile sponda qualora si entrasse in un concreto negoziato diplomatico, ma le vere chiavi di una possibile cessazione delle ostilità sembrano possederle Washington e Pechino.
Se le due potenze si muoveranno insieme (nessuna delle due vorrà il prevalere dell’altra), si sarà consolidato un nuovo sistema bipolare, con l’Europa al traino degli Stati Uniti e la Russia vassalla di fatto della Cina; la quale Cina sta estendendo la propria influenza anche sulle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale, fino a non molto tempo fa tributarie di Mosca. Accantonata la questione ucraina, le due superpotenze si confronteranno su Taiwan e sui complessi temi delle produzioni tecnologiche e delle relative filiere, nonché sulle aree di concorrente o concorrenziale influenza. Ne nascerebbe una sorta di guerra fredda ricca di tensioni.
Ove la Cina dovesse invece avere successo con una scarsa partecipazione dell’Occidente, quest’ultimo avrebbe fatto un ulteriore passo indietro rispetto alla propria ambizione di guida globale, del resto già in recessione, e il governo della situazione ucraina (e forse, seppur indirettamente, della sicurezza europea) sarebbe stato esercitato da Pechino. La Cina, quindi, già ottimamente posizionata in Africa, nel Golfo, dove ha favorito la distensione fra Iran e Arabia saudita, e in Asia centrale, finirebbe per mostrarsi cruciale anche in Europa: dove l’Occidente (l’Europa, la Nato, gli Stati Uniti) non avrebbero saputo fare altro che alimentare la guerra, la Cina apparirebbe come l’unico, o il principale, deus ex machina della pace.
È anche per questo motivo (e, per quanto riguarda i futuri scenari globali, soprattutto per questo motivo) che l’Occidente dovrebbe porsi seriamente il problema di concludere il conflitto sotto il proprio segno: per poter ancora essere il solo o il principale dominus della sicurezza nell’area euro-atlantica e per poter mostrare capacità di gestione della stabilità e della pace, oltre che della guerra. Sono infatti nelle mani dell’Occidente, a parere di chi scrive, gli strumenti per ogni durevole ricomposizione che preservi sicurezza e giustizia, che non escluda qualche ragionevole compromesso, e che riaffermi l’autorevolezza della comunità euroatlantica nell’aver cura dei propri interessi strategici.
Questi strumenti consistono, in estrema sintesi, in un’equilibrata ristrutturazione globale della sicurezza europea, tale che ciascuno dei paesi su essa gravitanti possa non solo sentirsi sicuro e riconosciuto, ma anche disinteressato a incrinarne gli equilibri. Accettando quest’ordine di idee, e avviando subito credibili proposte in tal senso, la comunità atlantica potrebbe chiedere un immediato cessate il fuoco, l’avvio di misure di distensione, e l’impegno a ristabilire la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina (e magari di altre aree critiche) sulla base dei principi OSCE: rispetto delle frontiere, protezione delle minoranze, controllo indipendente di elezioni e referendum regionali, e così via.
Almeno a giudicare dalle dichiarazioni pubbliche, il vertice NATO previsto per l’11 e 12 luglio a Vilnius non sembra ispirato a questi principi generali, ma piuttosto all’intenzione, in attesa degli esiti della controffensiva ucraina, di isolare ulteriormente la Russia sulla base delle proposte di Kiev (preventivo recupero di tutti i territori). Senza simultanea proposta di una revisione sistemica, tuttavia, qualunque sbocco della guerra risulterebbe nefasto per il futuro della stabilità europea, perché chiunque dovesse uscirne perdente, o “non vincente”, continuerebbe a coltivare malumori e desiderio di rivalsa; si perpetuerebbero, di conseguenza, gli attriti che in diversa misura hanno fatto da incubatore al conflitto.