Il nuovo Governo e le prossime riforme “epocali” della Giustizia

Il primo governo presieduto da una donna ha scelto come ministro della Giustizia un ex magistrato, per l’esattezza un ex Pubblico Ministero, il dott. Carlo Nordio.

Da mesi, prima della sua designazione, il prescelto aveva lanciato forti bordate contro il Sistema di potere invalso dentro la magistratura, come scoperchiato dalla pubblicazione di alcuni libri e delle conversazioni intrattenute da un ex consigliere, particolarmente potente, del CSM.

Il dott. Nordio aveva anche suggerito rimedi esiziali contro il correntismo, considerato il nemico numero uno dell’indipendenza interna della categoria, invitando a “liberare” il CSM dalle correnti con il sistema del sorteggio, deprecando la politicizzazione interna che “la fa da padrona” sia dentro l’ANM che nel CSM (“Basta riflettere sulle correnti che sono costruite a imitazione dei partiti, con una destra, un centro e una sinistra. Le nomine sono pilotate, se non hai la sponsorizzazione di questa o quella corrente non puoi aspirare a uffici importanti”).

Le sue numerose prese di posizione lasciavano immaginare che, una volta nominato Ministro, il primo esempio da dare sarebbe stato quello di prendere le distanze e impedire qualsiasi avvicinamento a esponenti di gruppi associativi o a magistrati coinvolti in quello scandalo o, comunque, il ridimensionamento della presenza di rappresentanti “correntizi” nelle posizioni di vertice del Ministero.

Purtroppo la realtà sembra delineare un vero e proprio spoils system, caratterizzato dal rovesciamento delle posizioni di potere tra i diversi gruppi associativi, con una netta prevalenza di esponenti della parte “conservatrice” della magistratura. Di questi giorni è la notizia che sia stata scelta, a vice capo di uno dei più importanti dipartimenti, un magistrato (appartenente al gruppo Unicost) particolarmente attivo nel “chattismo raccomandante” con Luca Palamara.

La premessa è stata necessaria per comprendere come le direttrici politiche che animano i propositi riformisti del nuovo Governo sembrano condizionate, oltre che dalle naturali vocazioni degli alleati politici, anche dai consiglieri tecnici del Ministro della Giustizia, suoi ex colleghi.

Ecco perché lo sbandierato “garantismo”, declinato nelle esigenze di privacy nelle intercettazioni e di segretezza delle indagini, nella massima presunzione di non colpevolezza in fase di indagini (persino nella redazione dei provvedimenti cautelari personali), sembra godere ampio seguito negli ambienti dei crimini dei “colletti bianchi” (reati contro la pubblica amministrazione in primis), mentre esso diventa recessivo una volta che la Politica tratti il tema della immigrazione o della gioventù “descamisada” (penso alla nuova normativa sui rave party o sull’imbrattamento dei muri).

Il colore politico del governo, poi, sembra quello che ha riportato in auge il tema tanto caro della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudicanti, un cavallo di Troia, a parere di molti, per assoggettare definitivamente l’esercizio dell’azione penale alle linee guida del Parlamento o del (futuro) Procuratore generale della Corte di Cassazione o dei Procuratori delle Corti di Appello, vista la progressiva gerarchizzazione di quegli uffici e considerata la designazione “politica” che l’organo di governo autonomo della magistratura, ancora occupato dalle correnti, rivendica sempre più spesso.

La dipendenza “esterna” dell’Ufficio requirente sarebbe il modo migliore per imbrigliare definitivamente i principi costituzionali di uguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale.

Altrettanto orientato dal colore politico del Governo e, apparentemente, anche dei suoi collaboratori togati dentro il Ministero, sembra la richiesta di (ulteriore) modifica della disciplina dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze. Piuttosto che rendere più ampio il raggio di azione di questi reati, tuttavia, come ci si aspetterebbe in un paese ad altissima corruzione, il Governo sembra intenzionato ad alleggerire ulteriormente la persecuzione penale di certe condotte (ma già è stato dimostrato che, negli ultimi anni, statisticamente le condanne per detto genere di crimini è stata bassissima).

La ragione? “Rispondere alla perentoria richiesta dei sindaci di ogni “colore” politico”. Davvero incredibile la motivazione addotta, come se ad essere preminenti non dovrebbero essere le ragioni dei cittadini amministrati da quei sindaci, troppo spesso in balia di potentati locali o delle peggiori forme di lobbismo politico-economico. Depenalizzare le forme nepotistiche e/o clientelari di gestione del potere politico locale vuol dire consegnare direttamente alla malavita, specie in certe aree del Paese, l’Amministrazione degli enti territoriali, con buona pace dei principi, sempre di matrice costituzionale, del buon andamento e dell’imparzialità.

Nessuno pensa, invece, ad altri interventi sul piano sostanziale, per ridurre il numero di processi penali: il settore delle droghe ‘leggere’, ad esempio, potrebbe meritare oggi una larga depenalizzazione, considerato che la repressione penale sembra avere effetti criminogeni, oltre che foraggiare uno dei mercati più floridi della criminalità organizzata.

Viene, inoltre, sbandierata una ennesima riforma delle intercettazioni, nel senso, ad esempio, di tutelare al massimo le esigenze di privacy, vietando la pubblicazione di conversazioni che possono risultare anche solo compromettenti per l’immagine della persona sottoposta a indagine. Come se non ci fosse un interesse pubblico, talvolta, a conoscere certi vizi privati del politico (ad esempio l’uso di sostanza stupefacente o una propensione all’etilismo o una assidua dedizione alla prostituzione o all’erotomania).

Dulcis in fundo è di questi ultimi giorni la notizia che il garantismo “di destra” pensa che la riforma epocale della Giustizia si sostanzi anche nelle modificazioni delle norme processuali sull’interrogatorio di garanzia e sul numero dei componenti del tribunale competente ad irrogare una misura cautelare personale.

Si pensa persino di introdurre un interrogatorio di “supergaranzia” nella fase preliminare.

Premesso che l’interrogatorio preventivo già esiste per le misure c.d. interdittive, estendere la sua applicazione anche per quelle restrittive della libertà personale (c.d. misure custodiali e coercitive) significherebbe semplicemente istigare l’indagato o alla latitanza o a condotte di inquinamento probatorio, se non al depistaggio.

Irrealizzabile in concreto, invece, un’altra proposta paventata in ambito processual-penale: rendere collegiale la decisione sulla adozione di una misura cautelare personale. Essa, rebus sic stantibus, metterebbe in ginocchio, sotto il profilo della compatibilità tra giudici, i piccoli-medi uffici giudiziari, coinvolgendo numerosissimi magistrati e in alcuni casi demandando verosimilmente la decisione finale di un processo penale ad un giudice civile (magari l’unico a non essere divenuto incompatibile dopo la fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare).

In conclusione si intravedono all’orizzonte altre riforme “epocali” della Giustizia incapaci di neutralizzare i vari problemi di funzionamento e di celerità della giustizia in Italia, la cui soluzione, davvero semplicissima e conosciuta da decenni, prevede semplici (si fa per dire) risposte e poche azioni: incrementare mezzi umani e materiali; ridistribuire le risorse tra gli uffici; incidere razionalmente sulla riduzione della domanda di giustizia.

Ciò che nessun governo – di centro, di destra o di sinistra, ma anche “movimentista” – ha mai avuto intenzione realmente di fare.

Ce ne sarebbe un’altra di riforme epocali per restituire credibilità e autorevolezza alla magistratura, sotto il profilo interno.

L’attuale Ministro, ex magistrato, conosce bene cause e mezzi per poterlo fare, ma sembra che anche questo aspetto sia passato totalmente in secondo, anzi all’ultimo piano (forse la piccionaia), dell’edificio che ha iniziato ad amministrare.

Andrea Reale

Giudice per le Indagini Preliminari a Ragusa, membro del Comitato direttivo centrale dell’ANM

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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