CSM, lepre e tartaruga

Il Consiglio Superiore della Magistratura era stato messo al corrente delle chat carpite dal telefono di Luca Palamara dalla procura della repubblica di Perugia.

Era pertanto costretto a leggerle.

Così come le aveva lette il Procuratore Generale della Cassazione il quale ne trasse l’idea dell’irrilevanza disciplinare del sistema di raccomandazioni largamente invalso tra i magistrati, idea immediatamente trasfusa in direttive interne a quell’ufficio – titolare dell’azione disciplinare – con le quali veniva escluso il dovere di assumere iniziative, su quel piano, verso raccomandanti e raccomandati.

Tolto di mezzo il disciplinare con tratto di penna di chi ha in sostanza il monopolio dell’accusa (il Ministro della Giustizia, co-titolare dell’iniziativa disciplinare contro i magistrati, non pervenuto) al CSM è rimasta la grana di stabilire se quelle chat dovessero restare nell’ambito dalla totale irrilevanza ovvero se potessero valutarsi ad altri fini, diversi cioè dal tema disciplinare.

La risposta di facciata è stata affermativa, perché appariva sconveniente offrire all’opinione pubblica l’idea che “va tutto bene”, dopo che nello stesso CSM si era levata la voce tonante di chi evocava la Loggia P2 quale unico paragone proporzionato alla gravità dello scandalo.

Restavano due diversi ambiti nei quali le chat potevano assumere rilevanza: quello dell’incompatibilità ambientale del magistrato e quello della valutazione della sua professionalità.

Ed allora con gran fretta il CSM ha esaminato per prime le pratiche che riguardavano le toghe più in vista, quelle che avevano avuto un ruolo di vertice nell’ambito dell’associazione nazionale magistrati oppure rivestito incarichi parlamentari di grande rilievo.

Per partorire i classici “topolini”: dalla montagna di conversazioni a due tra il dott. Palamara e l’interessato interlocutore di turno il CSM ha tratto conclusioni benevole, graziando chi definiva “delinquenti” dei colleghi aspiranti ad incarichi di varia natura, perché mosso dalla cura del superiore interesse pubblico alla scelta del “migliore” (sebbene quell’interesse non fosse nelle loro mani); oppure chi caldeggiava, dallo scranno di parlamentare, la scelta di questo o di quello, solo perché l’estrema “riservatezza” dei colleghi dell’ufficio ove quel segnalante attualmente svolge le funzioni aveva escluso ogni motivo di strepito.

Ecco, la riservatezza, quella sì che si addice ai magistrati. Bel messaggio, non c’è che dire.

Insomma, la priorità era mettere in salvo il salvabile, ove non fosse bastato Giovanni Salvi, il Procuratore Generale che aveva sostanzialmente silenziato il disciplinare.

E questo risultato è stato portato a casa molto in fretta.

Invece le “grane” potevano attendere, essere accantonante come patate bollenti da scaricare al nuovo CSM che è entrato in funzione solo nel mese di gennaio di quest’anno.

È di questi giorni la denuncia pubblica del notevole ritardo col quale il CSM (non) esamina le pratiche relative alla conferma di alcuni magistrati investiti di ruoli direttivi nei confronti dei quali, da anni, sono stati resi pareri negativi alla conferma in quelle funzioni proprio per via dell’attitudine a rivolgersi al dott. Palamara.

Una valutazione che il CSM dovrebbe svolgere subito dopo il compimento di un quadriennio per stabilire se l’interessato meriti la conferma per analogo periodo.

Chiaro che se quella valutazione viene ritardata la legge è violata.

Eppure, a dar retta alle segnalazioni giornalistiche, giacciono da almeno tre anni a Palazzo dei Marescialli pratiche scottanti, in tal modo evitando la mancata conferma nelle funzioni di diversi magistrati che tutto lascerebbe pensare inadeguati al ruolo, se si dà credito alle affermazioni di “facciata” circa la riprovevolezza della raccomandopoli togata.

Lepre e tartaruga hanno questo in comune: entrambi si muovono, sebbene con diversa velocità, per evitare danni.

Tutto questo ha un senso, spiegabilissimo.

Se il CSM si atteggia ad organo “politico” è facile intuire che accontentare paga e scontentare danneggia.

Ecco perché il CSM da poco cessato ha preferito concentrarsi nella prima attività per lasciare al subentrante quella meno conveniente.

Del resto, complice il carrierismo molto diffuso tra le toghe, il CSM è sempre più impegnato nel Monopoli della spartizione degli incarichi tra i magistrati piuttosto che nei compiti, quelli davvero fondamentali, di vigilanza sul buon andamento del servizio negli uffici giudiziari.

È questa la ragione, ad esempio, per la quale l’approvazione dei sistemi organizzativi degli uffici (cd. “tabelle” di organizzazione) interviene sistematicamente quando è ormai già trascorso il periodo al quale essi si riferiscono, in sostanza una ratifica postuma anziché una oculata programmazione, con quali risultati di efficienza ognuno potrà apprezzare.

Ed ancora, non può sorprendere che un fisiologico contrasto tra un sostituto procuratore ed il suo “capo” venga risolto dal CSM dopo quattro anni da suo insorgere, quando il primo è ormai diventato un giudice civile ed il secondo procuratore del Papa. E quattro anni devono essere parsi abbastanza per far dimenticare che all’origine di quel contrasto vi fosse anche il tema di una mancata astensione sulla quale il CSM ha così evitato di esprimersi. Per dipanare la matassa è stato sufficiente affermare la primazia del “capo” sul sostituto, mero esecutore dei suoi ordini, se non vuol perdere il fascicolo.

Cosa abbia oggi in comune quel sostituto procuratore col giudice “soggetto soltanto alla legge” non è più un mistero: solo il CSM ridotto a centro di potere li accomuna, il resto val meno di uno slogan.

Come può essere credibilmente invocata la “comune cultura della giurisdizione” se poi al sostituto viene impedito di metterla in pratica?

E nessuno sembra voler considerare il rischio che i vasi comunicanti possano girare al contrario e quindi diffondere l’idea della gerarchia anche tra i giudici.

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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