Non c’è dubbio che la BCE aveva ben poca scelta quando a luglio 2022 ha dato inizio alla lunga serie di aumenti dei tassi arrivati, a marzo, al 3,50%. E questo per due motivi: il primo è che sicuramente il fenomeno inflazionistico in Europa, generato dall’esplosione del prezzo delle fonti energetiche, iniziava davvero ad essere preoccupante ed a contagiare anche i settori non tipicamente energivori; il secondo è, invece, connesso al fatto che un gap troppo aperto tra i tassi di interesse voluti dalla FED e quelli europei avrebbe portato gli investitori a disinvestire i titoli in euro per comprare quelli in dollari alla ricerca di rendimenti più interessanti. Con conseguente inevitabile indebolimento dell’euro rispetto al dollaro. Il problema è che, in questa maniera, il “made in Europe” avrebbe forse tratto qualche giovamento sul lato delle maggiori esportazioni verso gli USA, ma l’Europa avrebbe pagato molto più care le importazioni di fonti energetiche, materie prime e semilavorati, tutti acquistati prevalentemente in dollari.
Ciò premesso, oggi forse esistono almeno 3 buone ragioni per cui la BCE, dopo l’ultimo aumento di marzo, dovrebbe assumere una postura meno aggressiva per quanto riguarda la politica dei tassi.
La prima ragione è connessa al fatto che l’inflazione europea, contrariamente a quella americana, è una inflazione da offerta, ossia derivante dall’incontrollato aumento del prezzo delle fonti energetiche e non dal surriscaldamento dell’economia. Di conseguenza, ora che l’allarme energetico si sta affievolendo, l’inflazione europea ha iniziato a mostrare notevoli segni di cedimento. E questo fenomeno è ben rappresentato dai dati preliminari di marzo che vedono l’inflazione dell’Eurozona scendere al 6,9% contro l’8,5% del mese precedente. Interessante, a questo proposito, il caso della Spagna dove l’inflazione si è praticamente dimezzata passando dal 6% di febbraio al 3,1% di marzo.
Ora, è vero che in Europa, l’inflazione “core” (quella al netto delle fonti energetiche e dell’alimentare fresco) si mostra ancora molto resiliente, tuttavia questo dato comporta la necessità di non abbassare la guardia sul fronte dell’inflazione, ma non autorizza a procedere come una locomotiva ceca sui binari dell’aumento indiscriminato dei tassi. Anche perché, contrariamente a quanto accade negli USA, in Europa l’inflazione non ha infiammato le dinamiche salariali innescando una pericolosa spirale ascendente prezzi – salari.
La seconda ragione è invece connessa alla crescita. Incredibilmente, il 2023 che sembrava destinato ad essere un anno di recessione per l’Europa e per l’Italia, si sta trasformando in un anno di moderata crescita. Da evidenziare, a questo proposito, che ancora alla fine del 2022 S&P prevedeva per l’Italia una discesa del PIL dell’1,1% e Moody’s addirittura dell’1,4%. Ad oggi, la Commissione Europea prevede nel 2023, sia per l’Eurozona che per l’Italia, una crescita dello 0,8%. Ora, questo dato in realtà può essere letto in due modi: come un segnale di resilienza dell’economia e quindi potrebbe incoraggiare la continuazione di una politica aggressiva di tassi per dare un ulteriore colpo all’inflazione, oppure come una insperata possibilità in grado di farci sfuggire ad una recessione che sembrava ormai inevitabile. Se si propende per questa seconda ipotesi, considerando anche l’enorme incertezza dovuta alla guerra in Ucraina, tutto bisognerebbe fare, meno che stoppare sul nascere una fragile ripresa insistendo con una politica dei tassi decisamente aggressiva.
La terza ragione, infine, riguarda invece le conseguenze del recente “allarme banche” partito dalla Silicon Valley Bank e poi approdato su Credit Swisse e, marginalmente, su Deutsche Bank. Qui, il problema è che il passaggio da 10 anni di tassi a zero o addirittura negativi ai 9 aumenti consecutivi della FED, ha comportato per le banche uno stress simile a quello che subirebbero i motori di una nave nel momento in cui si passasse improvvisamente dall’ordine “macchine avanti tutta” all’ordine “macchine, indietro tutta”. Nel caso della nave, potrebbe saltare qualche bullone delle turbine, nel caso dell’economia potrebbe saltare, come accaduto, qualche banca. La conseguenza è che l’allarme banche ha evidenziato chiaramente come una politica aggressiva dei tassi non possa più tener conto solo delle conseguenze in termini di inflazione e crescita, ma debba anche considerare, con la massima attenzione, il rischio di generare “instabilità finanziaria”. Anche perché la variabile “instabilità finanziaria” ha mostrato di sapersi muovere rapidamente, di essere molto contagiosa e di essere molto “emotiva” anche grazie all’azione dei social.
Dunque, in questo scenario, ha perfettamente ragione Fabio Panetta, membro italiano del Board della BCE quando invita la BCE, non ad abbassare le armi contro l’inflazione, ma a muoversi sul fronte dei tassi a piccoli passi in maniera da calibrare costantemente la politica monetaria all’evoluzione, oggi spesso imprevedibile, dei dati economici.