“L’abuso”: il suo uso… errato!

Il programma di riforme normative, che l’Italia si appresta a varare, è di vasta portata, riferendosi a campi, rispetto a i quali, ripetute volte, anche con motivazioni diverse, sono stati mossi rilievi di inefficacia, spesso di illegittimità.

Tra gli interventi prospettati e maggiormente ritenuti, oltre che necessari, anche urgenti, vi è il settore della Giustizia, interessato da profonde scelte di campo da parte del Legislatore.

L’ampio quadro che ne consegue suggerisce, inoltre, non solo la singola disamina degli istituti interessati, anche una visione di insieme dei vari interventi, onde evitare quella disarmonia e contraddittorietà di tutto il sistema, pure più volte lamentata.

L’esame, che con la presente esposizione viene affrontato, pur riferendosi dunque ad un singolo argomento, si propone di approfondire, sia pure in tempi successivi, anche gli ulteriori interventi di riforma, ricercando nelle problematiche affrontate, la armonica visione di insieme citata, necessaria ed omogenea.

L’argomento esaminato, dunque, come prima riflessione, è quello riconducibile al reato di abuso di ufficio previsto dall’art. 323 c.p.

L’attuale formulazione normativa, a parte la riserva finale, rappresentata dall’esclusa sua ipotizzazione conseguente alla previsione del fatto come più grave reato, prevede la responsabilità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio.

Il pedissequo riferimento alla testuale dizione normativa scaturisce dalla necessità di richiamare i punti, che nella sua applicazione, malgrado i diversi interventi che ne hanno modificato il testo, lasciano tuttavia inalterati e non superabili i problemi e le difficoltà della sua interpretazione.

I riferimenti normativi alle previsioni di vantaggio o di danno ingiusto, lasciano infatti ampio margine di discrezionalità per la loro individuazione, così pure la riconducibilità dell’elemento soggettivo alla generica previsione dell’abuso non serve a chiarirne i termini, posto che la mancanza di una sua giuridica definizione non ne consente una migliore e concreta specificazione.

I conseguenti vari problemi interpretativi della norma, attendono dunque, dal progetto di riforma, più corrette soluzioni.

In relazione a ciò occorre subito rilevare che il compito auspicato non appare di poco momento, posto che è la stessa norma in esame a non offrire chiari elementi di riferimento ed interpretazione. Soffermandosi, in maniera specifica, sulla sua letterale dizione, le definizioni di “interesse” come quella di “un vantaggio” ovvero di un “danno” “intenzionalmente” procurato non offrono sicuri

elementi di valutazione. Di tali previsioni, infatti, il solo riferimento alla intenzionalità dell’azione rimarca solo la volontà di compiere un’azione, affidando, come pure gli altri elementi, a generali quantificazioni, una definizione incerta e fluttuante.

Invero il vasto campo di riferimento e di inquadramento del “interesse” finisce per rendere, proprio per la sua riconducibilità ad una molteplicità di situazioni, generalizzata e non pacificamente identificabile, la sua definizione.

Ma, al di là delle considerazioni svolte ed orientando l’indagine alla definizione della nozione di abuso ci si accorge che esso sostanzialmente assume, nel campo dell’illecito penale, una duplice accezione di abuso del potere ed abuso del diritto. Entrambe le definizioni riconducono ad una identica ottica giuridica motivata dall’individuazione del potere, cui va ad aggiungersi un aspetto politico.

Tuttavia, malgrado la comune visione, le problematiche scaturenti dalla molteplicità degli abusi evidenziano, nell’indeterminatezza e nella genericità di elementi descrittivi, la difficile identificazione della tutela e la conseguente ambiguità delle azioni.

Di conseguenza, si corre il rischio di configurare ogni ipotesi di reato come abuso di potere, frutto della libertà, concessa ad un soggetto, di incidere sulla sfera giuridica altrui, relegando l’abuso del diritto ad una mera facoltà consentita dall’ordinamento giuridico e caratterizzata dal dovere di agire. Malgrado tali specificazioni, il problema di fondo rimane però quello di individuare, con esattezza, i limiti entro i quali il comportamento, tenuto dai vari soggetti, assume rilevanza giuridica sotto il profilo dello scorretto esercizio del potere.

Non quindi il mero esercizio di una posizione di potere configura illiceità ma il ricorso ad un suo illegittimo uso.

Se, infatti, l’esame del comportamento non ipotizza alcun concreto esercizio del potere, la sua valutazione finale non può ritenere ricorrenti forme di abuso, manifestamente contraddittorie per sua stessa definizione.

La ricerca, dunque, deve essere orientata ad individuare le condizioni entro le quali l’ordinamento giuridico, in sede penale, attribuisce rilevanza alla figura dell’abuso, muovendo dal rilievo, esser questa, sostanziale manifestazione di un potere. Di conseguenza, se il comportamento del soggetto agente sarà dunque espressione solo della sua mera facoltà di agire, senza far ricorso ad abusi, nessun illecito potrà dirsi ricorrente in assenza di individuazione del potere. Configurerà invece la ricorrenza dell’ipotesi di abuso l’uso illegittimo, rispetto al quale la facoltà di agire rimane un semplice dato oggettivo.

Consegue alla distinzione espressa, ai fini della individuazione dell’abuso, il richiamo, necessario in punto di fatto, all’utilizzo da parte del soggetto agente del proprio potere per il compimento del fatto tipico dell’illecito.

A meglio specificare il concetto espresso, potrà servire il soffermarsi sull’ulteriore distinzione tra abuso di potere e violazione del dovere. Entrambe le figure, pur indicando una stretta connessione tra loro, rappresentano una propria identità ed una differente configurazione.

Nell’ambito della pubblica funzione il rapporto tra potere e dovere richiama due distinti meccanismi giuridici. La configurazione del potere, infatti, collega il suo pubblico esercizio a specifiche ipotesi; l’esercizio del dovere, prevede il compimento, da parte del soggetto agente, non della facoltà di agire ma l’obbligo di impiegarla.

Il richiamo ad una correlazione tra potere e dovere configura un’ulteriore distinzione tra reati di abuso del potere e reati di violazione di un dovere. Una tale formulazione, non pacificamente condivisa in dottrina, serve ad offrire un quadro significativo delle possibili prospettazioni conseguenti, in linea di fatto, alla ricerca di una corretta interpretazione giuridica dell’abuso.

Su tale argomento, ulteriore distinzione è suggerita tra abuso di potere ed infedeltà.

La differenza tra le due formulazioni contribuirà a ricercare una definizione dell’abuso meno incerta e meno suscettibile di espansioni applicative.

L’abuso presuppone necessariamente l’utilizzazione del potere, la infedeltà invece si ravvisa, indipendentemente dall’esercizio del potere, nella violazione del dovere.

Al di là dell’indicata differenza, le due definizioni rispondono ad espressioni diverse, rappresentate nell’infedeltà dal conseguimento degli interessi del soggetto agente, laddove invece nell’abuso sarà carente il corretto esercizio del potere.

Le diverse prospettazioni, oltre a richiamare il facile ricorso ad errate interpretazioni giuridiche, sotto il profilo di una infondata definizione dell’abuso, dimostrano la necessità di una sua chiara definizione, comprensiva sia dell’interesse pubblico che privato.

Sotto tal profilo, una maggiore sensibilità del Legislatore, verso una comune valutazione dei distinti campi, avrebbe il pregio di offrire una completa visione del problema, rispettosa dei principi sanciti dalla Costituzione.

Molte specifiche disposizione normative, pur collegandosi infatti a riconosciuti interessi, evidenziano, nel riferimento costituzionale, problematicità che, in buona sostanza, finiscono per espandere l’incertezza interpretativa.

Il richiamo alla carta costituzionale pone, come necessario, soffermarsi sulla corretta configurazione del fatto. Già più volte si è fatto riferimento alla molteplicità di situazione nella quale si sono configurate ipotesi di abuso che però non hanno offerto, sotto il profilo interpretativo, tranquillizzanti soluzioni. La espansione e la vastità di tali comportamenti ha trovato la sua giustificazione nella carenza normativa che, puntualmente affiorando in ogni ipotesi di giudizio, si risolve nella indeterminatezza delle previsioni di una residuale sua collocazione.

A contrastare tale fenomeno, mossi dall’intento di fornire una consona ed appropriata definizione dell’abuso, soddisfacente sotto il profilo della chiara individuazione dei suoi elementi, non può essere trascurato il soffermarsi sul concetto di danno, conseguente all’abuso, e delle sue caratterizzazioni di irreparabilità ed inevitabilità. Le conseguenti interpretazioni proposte hanno cercato di superare la mancanza di un’organica definizione del danno, integrando il suo concetto con la inevitabilità di controlli preventivi e con l’irreparabilità di quelli successivi, ancorati a prefissati indici quantitativi.

Anche un tale tentativo però mostra di non essere soddisfacente in quanto è la stessa vastità del fenomeno a ribadire, con il riferimento alla assolutezza e qualificazione dei due aggettivi indicati, la sostanziale incertezza di giudizio.

A ciò si aggiunga che il riferimento al tipo di danno riconduce ogni valutazione a tale elemento, non contribuendo, di conseguenza, ad una migliore configurazione dell’abuso.

Va ancora osservato inoltre che gli stessi controlli, preventivi o successivi, potrebbero loro stessi configurare autonomamente, forme di abuso, egualmente incerte.

In buona sostanza le qualificazioni di irreparabilità ed inevitabilità finiscono per rimanere estranee alla norma, senza offrire, per contro, certezze sulla quantificazione della condotta.

Una giuridica specifica definizione del concetto di abuso si pone dunque come rilevante elemento di valutazione, partendo da una consonanza con il dettato costituzionale ed integrando nella norma gli elementi qualificativi della condotta.

La sostanziale specifica modulazione della norma certamente dovrà anche scontare il suo riscontro sul piano politico, superando le altalenanti proposte, dettate da interessi non sempre riconducibili a quelli della comunità, rispondendo così anche alle sollecitazioni espresse dalla Costituzione.

Inoltre la individuazione dei termini “di vantaggio” o di “danno”, legati alla definizione di “ingiusto”, sembra limitato al solo riferimento del dettato normativo privo di chiari ed oggettivi punti di specificazioni o di motivazioni etiche e sociali, giustificata solo da una comune e generica qualificazione di abuso di una facoltà concessa dall’ordinamento giuridico. Così interpretata la norma finisce per essere espressione di una abnorme ed illegittima rappresentazione del potere, indeterminatamente autorizzato.

Di conseguenza, la sola utilizzazione del proprio potere, da parte del soggetto agente, servirà a configurare la ricorrenza del reato di abuso.

Emerge da tale argomentazione la correlazione tra potere e dovere, apparentemente uniti dalla unicità di riferimento ad una identica situazione giuridica, ma sostanzialmente diversi nel riferimento alla loro giuridica natura.

Il potere infatti indica la sua ragion d’essere nella esistenza di un dovere, rispetto al quale il suo titolare ha solo l’obbligo di adempiere, privo di facoltà alcuna.

Questione apparentemente marginale nella ricostruzione delle varie situazioni di fatto, catalogata come abuso, emerge dalla sua sostanziale definizione di infedeltà.

Una tale interpretazione potrebbe sembrare eccessiva, riferendosi a casi nei quali primeggia, sotto il profilo soggettivo, la figura del pubblico funzionario.

Purtroppo i tempi odierni e le rispettive cronache, anche giudiziarie, stanno fornendo alla pubblica conoscenza, sempre più numerose notizie su comportamenti infedeli tanto da rappresentarne la preponderante, preoccupante, caratteristica.

Indubbiamente il triste fenomeno è frutto di tempi che esprimono la carenza, se non la cancellazione, di essenziali valori sociali. La constatazione poi di una corrispondente, insufficiente garanzia del settore giustizia, rende ancora più allarmanti le valutazioni rivolte ad un sereno futuro. Non sono estranei a tali avvenimenti anche quei comportamenti dei pubblici funzionari che, dinanzi alle giuridiche manifestazioni delle criticità giuridiche, purtroppo sempre più affioranti, hanno ritenuto di optare timorosamente per atteggiamenti di rinuncia al compimento di atti dovuti, onde evitare future e più gravi incriminazioni di abuso, collegate alle già richiamate difficoltà interpretative. Trattasi di un fenomeno le cui manifestazioni si stanno verificando sempre in maggior numero e che, pur non evidenziando altri gravi comportamenti, sotto il profilo psicologico, richiamano in egual maniera la sostanziale sfiducia verso un settore fondato e basato invece sulla presenza di un rilevante ed essenziale valore di fedeltà.

Trattasi dunque, malgrado i differenti atteggiamenti psicologici dell’elemento soggettivo, pur sempre di un abuso in quanto esso presuppone, necessariamente, l’utilizzazione di un potere o di una giuridica situazione connessa al dovere del pubblico funzionario.

La mancata utilizzazione del potere per un fine diverso, da quelli voluti dalla pubblica amministrazione e richiesti al soggetto agente, determina quindi, forse in maniera più facilmente individuabile, anche se di carattere generale, il sostanziale conflitto di interessi che è alla base dell’abuso.

Il riferimento a tale rilievo pone in risalto la violazione dello scopo concreto dell’atto da compiere, negato da scelte differenti e prevalenti.

Il compimento dell’atto, con la fondamentale individuazione e connotazione di uno scopo, potrebbe servire a contribuire correttamente l’ipotesi dell’illecito penale, qualificando, al di là di ulteriori motivazioni, l’elemento soggettivo.

Una tale indagine non sminuisce la scelta volitiva, rappresentando invece la necessità di una sua espressa e necessaria previsione nella ipotesi normativa da formulare in sede di riforma. Il suo espresso richiamo, tuttavia, non esaurisce la pur necessaria ricerca degli ulteriori elementi che contribuiscono alla formulazione della ricorrenza o meno dell’abuso.

Se tale illecito si manifesta in avvenimenti criminosi di settori diversi, è segno evidente che anche altri elementi si qualificano pure, come possibili, ai fini di una corretta individuazione dell’abuso. L’antigiuridicità di un fatto, dunque, andrà costruita analizzandone, di volta in volta, le sue caratteristiche, riscontrandone per prima la compatibilità con il dettato costituzionale in tema di configurazione di un fatto come reato.

L’omissione di un tale tipo di riscontro e la mancanza di adeguate previsioni normative sull’antigiuridicità del fatto ha contribuito alla proliferazione di situazioni erroneamente ritenute illecite e solo successivamente e con ritardo riconosciute invece come legittime.

L’offesa ai principi costituzionali del giusto processo e della celerità della sua celebrazione appare, in questi casi, evidente!

In conclusione, occorrerà dunque, ai fini di una corretta individuazione delle fattispecie costituenti il reato di abuso, determinare le caratteristiche dei singoli fatti, rapportandole con la tutela del bene giuridico protetto, desumibile sia dall’analisi del comportamento tenuto dalla gente, a fini del rispetto della sua giuridica configurazione, sia dalla realizzazione dell’interesse pubblico perseguito e dal provvedimento, nella correlazione tra legalità e diritto dei cittadini.

Una finale considerazione, in relazione alla prospettata esigenza di una teorizzazione dell’abuso, va rivolta al generale contesto socio-politico che riconosca, come bene fondamentale della nazione, il riconoscimento, la garanzia, la tutela dell’interesse dei cittadini nel pieno ed attuato rispetto dei principi costituzionali.

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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