Si fa un gran dire e si avverte una grande esigenza di formazione digitale, la società contemporanea esige lavoratori competenti e al passo con i tempi che siano in grado di affrontare con molta celerità e dinamismo il cambiamento che ci circonda e soprattutto la trasformazione del settore economico e delle professioni. Tutto vero, tutto rappresentato in grafici e dati statistici, pubblicati e diffusi su tutti gli strumenti divulgativi che confermano che certamente, vi è una immediata esigenza di avere una formazione che possa intercettare questi cambiamenti e dare opportune e veloci risposte ad un’industria economica che si sposta sempre più verso il settore digitale, e richiede sempre più flessibilità e modernità di approccio.
Siamo al punto che non si può più sottovalutare il cambio epocale che la tecnologia e il digitale stanno portando nelle nostre vite: possiamo dire, senza essere smentiti, che sono diventati strumenti indispensabili, fondamentali e necessari. Tanto detto ci trova, penso, tutti d’accordo, mossi semplicemente non da una cultura tecnologica o digitale, ma dal cosiddetto “buon senso”, ovvero dalla capacità di comportarsi con saggezza e senso della misura, attenendosi a criteri di opportunità generalmente condivisi.
Ma il settore della formazione, dalla scuola all’università, rispetto al digitale è mosso davvero da una visione di “buon senso”? Ho la sensazione che si avverta una leggera nostalgia per un’era non molto lontana in cui un grande semiologo come Umberto Eco scriveva un saggio dal titolo Apocalittici e integrati (1964) nel quale tratteggiava una situazione molto ambigua tra la società e i nuovi mezzi di comunicazione del momento: la televisione, il giornale, la radio, il cinema; alcuni ne furono entusiasti, altri si sentirono quasi offesi da tale modernità. È forse ipotizzabile o ragionevole pensare che anche oggi viviamo ancora una tale spaccatura, pur avendo sperimentato sul campo che la questione apocalittici/integrati non è stata adatta a vivere la modernità, anzi è stato un freno tenuto attivo in un treno ad alta velocità? La formazione digitale viene richiesta dal paese e dal mondo del mercato, ma le agenzie formali di formazione, le università, sono refrattarie nel rivedere e ripensare le proprie strutture, i propri modelli, la propria vision accademica.
Per inquadrare il fenomeno basta riflettere sul fatto che il nostro paese ha vissuto due anni di dura pandemia da Covid-19 che ha sconvolto la nostra esistenza, dove il digitale, per chi ne ha avuto la possibilità, è stato lo strumento attraverso il quale si è evitato un blocco totale dell’economia e della formazione, anzi è stato l’unico strumento che ha consentito di continuare la didattica e la ricerca universitaria. Nonostante ciò, allentata l’emergenza, siamo ritornati all’identico punto di partenza, anzi si è acuito maggiormente il rapporto tra apocalittici ed integrati in favore degli apocalittici, per tornare alla brillante definizione di Umberto Eco.
Il sistema universitario in due anni di pandemia ha svolto tutta la formazione e la certificazione (lezioni, esami e sedute di laurea) online, utilizzando il digitale, e adesso respinge anche il possibile modello blended (formazione svolta per metà in presenza e per metà online), ritornando a sbandierare una totale ed esclusiva attività in presenza che rinnega quanto fatto in due anni di pandemia demotivando, disorientando e creando disaffezione nei giovani rispetto alla necessaria e utile formazione al digitale e con il digitale.
La formazione che dovrebbe essere l’ascensore sociale, che dovrebbe intercettare le esigenze del mercato del lavoro e della contemporaneità, che dovrebbe essere lo strumento e il luogo (l’università) per farsi attori in un mondo digitale, torna con orgoglio alla presenza e si imbarazza nel raccontare che per due anni ha utilizzato strumenti e linguaggi digitali: sarà ragionevole tutto ciò? Non sarà forse più di “buon senso” pensare a dei percorsi di formazione che inglobino, che integrino il digitale? Sarà forse utile riflettere sul fatto che il digitale è uno strumento indispensabile nei nostri tempi e come tale va riportato nella formazione e utilizzato per la formazione? Il mio pensiero va al sociologo e filosofo Herbert Marshall McLuhan (Gli strumenti del comunicare 1967), che ha raccontato come, in una società, la struttura mentale delle persone e la cultura siano determinate dal tipo di tecnologia di cui quella data società dispone (“il medium è il messaggio” è una delle locuzioni più famose dell’Autore); se accogliamo il suo ragionamento dovremmo forse riflettere sul fatto che lo strumento di questo millennio è il digitale ed è perfettamente inutile e, forse addirittura controproducente, porsi nella posizione degli Apocalittici, ma forse sarebbe necessario e auspicabile vivere la contemporaneità riportando l’innovazione tecnologica e digitale nella giusta collocazione di strumento e, quindi, di supporto alla formazione dei futuri abitanti del mondo contemporaneo.
Utilizzare una certa dose di equilibrio e di “buon senso”, potrebbe spingere i giovani verso una nuova paideia che consenta loro di governare il digitale? Potrebbe o dovrebbe l’università occuparsi di tutto questo? Si dovrebbe, anzi deve e velocemente!