“Il filo conduttore degli interventi di riforma è rappresentato dall’efficienza del processo e della giustizia penale, in vista della piena attuazione dei principi costituzionali, convenzionali e dell’U.E. nonché del raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., che prevedono entro il 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio”.
Questa l’altisonante dichiarazione con cui si presenta, nella relazione illustrativa che ne accompagna il testo definitivo, la c.d. riforma Cartabia della giustizia penale.
Ma davvero l’intento riformatore si è attuato così come esposto?
Motivi fondamentali della crisi del sistema penale sono il numero troppo elevato degli affari e l’inutile farraginosità del procedimento, in cui nulla dissuade dall’abuso di ogni complicazione e tutto induce al loro sfruttamento.
In breve, non dissimilmente da altri, il sistema penale è ormai in palese e grave bancarotta.
Ciò avrebbe imposto di portare i libri in tribunale realizzando un opportuno reset dell’insostenibile carico giudiziario (oculata amnistia); di ridurre fortemente il fabbisogno di giustizia penale, tenendo conto delle più intense esigenze di punizione e delle risorse disponibili (ragionata e ampia depenalizzazione); di adeguare gli strumenti a disposizione ai loro scopi essenziali (meditata e organica riforma del codice di procedura per renderlo strumento idoneo all’accertamento della verità nel rispetto effettivo delle garanzie).
Nulla di tutto questo, però, risulta avvenuto.
A parte il tardivo e ormai improcrastinabile avvio della digitalizzazione e qualche altra sporadica opportuna novità, nel complesso la riforma sembra partorita da un Ufficio Complicazione Affari Semplici animato, neppure velatamente, da un’irrazionale esigenza di intralciare l’attività di indagine e di cogliere il pubblico ministero in fallo, come se la sua attività fosse indirizzata e condizionata non dalle previsioni di legge e dalle materiali possibilità di azione ma dalla volontà di fregare il prossimo.
Di amnistia e depenalizzazione neanche a parlarne.
La novella interviene sui versanti dell’ampliamento dei casi di procedibilità a querela della persona offesa, per lo più per reati che danneggiano concretamente, a volte anche in termini molto intensi, il patrimonio e la persona, e dell’allentamento delle condizioni della non punibilità per particolare tenuità del fatto, ampliando notevolmente il potere dei giudici di mandare assolti soggetti che hanno realizzato condotte integranti fattispecie di reato.
Tutti sanno o dovrebbero sapere, però, che l’effetto principale di tali interventi, a prescindere dall’assai opinabile opportunità delle specifiche previsioni, non sarà la deflazione dei procedimenti penali ma lo spreco enorme di risorse, viepiù grave in tempi di magra come quelli che stiamo vivendo.
I procedimenti dovranno essere avviati ugualmente e, fino all’ultimo istante, potranno cadere nel nulla per rimessione della querela o portare a una pronuncia secondo cui l’imputato ha sì commesso un reato ma, ad avviso del giudice, non merita di essere sanzionato.
Quanto agli interventi sul codice di rito, tutto potrà dirsi tranne che le modifiche avranno l’effetto di ridurre la durata dei processi.
È folgorante, da questo punto di vista, il passaggio della relazione illustrativa al testo definitivo del decreto di riforma nel quale si fa riferimento alla scelta della “riduzione delle misure alternative alla detenzione per i condannati in stato di libertà, in favore di pene sostitutive applicate dal giudice di cognizione”.
In tale passaggio si legge che detta scelta dovrebbe comportare la “riduzione del numero” e il “ridimensionamento della patologica situazione dei c.d. liberi sospesi, cioè dei condannati a pena detentiva che attendono talora per anni, in stato di libertà, la decisione sull’istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione”.
Come si cerca di ridimensionare l’individuata patologia? Con un ingenuo gioco di prestigio consistente nel trasferire quegli “anni” dalla fase esecutiva a quella di cognizione!
“Anni” che fino a ieri erano collocati fuori dai processi, da oggi vengono trasferiti all’interno dei processi.
Un’operazione indefinibile per la sua negatività. Non solo comporterà un corrispondente allungamento della durata dei processi e una loro enorme complicazione, ossia l’esatto contrario dell’obiettivo dichiarato di ridurne la durata e migliorarne l’efficienza, ma sarà inutile.
Le condizioni di accesso alle “pene sostitutive” devono essere attuali. Ben potrebbero difettare al momento della pronuncia della sentenza e sussistere al momento dell’esecuzione e viceversa. È vano e illogico, quindi, valutare la situazione prima della definitività della sentenza.
Inoltre, restando le sentenze impugnabili, le loro anche minime modiche, come è noto assai frequenti, manderanno in fumo le risorse e il tempo assurdamente spesi nel definire le modalità di esecuzione di statuizioni ancora sub iudice.
E che dire degli interventi in tema di garanzie?
Per lo più introduttivi di un burocratismo di carte e parole, essi appaiono animati da una volontà di spasmodico, inutile e controproducente controllo dell’attività del pubblico ministero, visto come un’entità pericolosa, la cui azione deve essere in ogni modo possibile imbrigliata e contenuta, anche dal timore di possibili conseguenze negative, sul piano personale, delle iniziative procedimentali che dovesse scegliere di intraprendere.
Una chicca, in quest’ottica, l’inutile controllo giudiziale sulle perquisizioni disposte dal pubblico ministero.
Se non porta al sequestro di qualcosa, avverso il decreto che ha disposto la perquisizione potrà essere proposta opposizione al giudice e questi, udite udite, potrà accoglierla.
Con quale rilevanza procedimentale? Nessuna naturalmente. L’accoglimento dell’opposizione servirà su un altro terreno, per punire il brutto, cattivo o inetto pubblico ministero, incapace di disporre una perquisizione “fruttuosa”.
Se invece qualcosa sarà comunque sequestrata – una pietra, un sassolino, una foglia, un pelo, una qualunque cosa – e magari restituita, immediatamente dopo, dallo stesso pubblico ministero perché riconosciuta del tutto estranea al reato, nessun controllo.
Ora, si domandi il gentile lettore, ma qual è quella tasca, quell’ufficio, quella casa, quel luogo qualunque in cui non ci sia una pietra, un sassolino, una foglia, un pelo, un qualcosa qualunque da sequestrare? E, soprattutto, se il pubblico ministero è così brutto e cattivo come questa riforma lo presuppone, si può pensare che quella pietra, quel sassolino, quella foglia, quel pelo o quel qualcosa qualunque non saltino comunque fuori?
Siamo al punto per cui non conta che le perquisizioni siano legittime, conta solo che siano proficue.
Per non parlare del gioco delle etichette, non solo inutile ma anche questo controproducente, che interessa i regimi dell’archiviazione e dell’udienza preliminare.
Non saranno più pronunciate archiviazioni perché la notizia di reato è infondata ma solo perché non vi è ragionevole previsione di condanna. Nella sostanza non cambierà nulla, saremo tutti archiviati come prima. Ma non ci sarà più l’etichetta dell’infondatezza della notizia di reato bensì lo stigma della non previsione di condanna.
Idem per l’udienza preliminare. Quando è noto a tutti che non funziona per l’insostenibilità degli oneri che richiederebbe per funzionare come dovrebbe, si spaccia come risolutore il cambio della formula con cui si manda a giudizio: non più perché gli elementi sono idonei a sostenere l’accusa ma perché vi è ragionevole previsione di condanna.
C’è poco da dire. Mal formulata la diagnosi, sbagliata la cura. Restando identici i giudici per tenere l’udienza preliminare nonché gli oneri connessi alla sua tenuta e definizione, identica resterà anche la sua (in)capacità di funzionare come dovrebbe.
Chi nel processo penale ci lavora, e sa che si tratta di una macchina già in gravissima difficoltà, in tante parti per niente funzionale ai suoi scopi apparenti, si rende subito conto che questa revisione aggrava la situazione e, con ogni probabilità, spalanca la strada della sua definitiva rottamazione.
Inevitabilmente, il senso di scoramento si diffonde sempre di più tra gli operatori della giustizia penale e si fa sempre più forte la spinta a occuparsi dei casi che si è chiamati a trattare non con l’idea, l’atteggiamento e l’impegno proprio del rendere giustizia bensì con quello dello smaltimento, sempre più rapido e, dunque, sempre più superficiale, di pratiche burocratiche.
Con quale beneficio per i diritti, le libertà e gli interessi in gioco è facile immaginare.
Se ci fosse un disegno razionale dietro le novità che si sono registrate negli ultimi decenni e di cui quelle più recenti costituiscono la punta più avanzata, questo non potrebbe che essere quello di condurre il sistema all’implosione, ritenuta necessaria o comunque utile per aprire definitivamente la strada dello smantellamento degli architravi costituzionali dell’obbligatorietà dell’azione penale e della stessa natura diffusa del potere giurisdizionale, nel disegno costituente presidi essenziali di effettività dei fondamentali principi di libertà, di uguaglianza e di garanzia dagli abusi, a cominciare da quelli del potere, ma oggi sempre più ottusamente avvertiti quali ostacoli allo sviluppo e pericoli per le esigenze dell’economia.
C’è da sperare, quindi, che non di questo si tratti ma di incapacità e inadeguatezza della politica rispetto alla portata dei problemi e all’entità degli interventi necessari per affrontarli; o che, più semplicemente, sia solo confusione.