Il 2022, l’anno con più suicidi in carcere*

Mancano ancora diverse settimane alla sua conclusione e il 2022 è già passato alla storia per un tragico primato: l’anno con più suicidi in carcere di sempre. Da inizio gennaio a inizio novembre sono almeno 73 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. “Almeno 73” perché numerosi sono i decessi con cause ancora da accertare che probabilmente nessuno accerterà mai e tra i quali potrebbero quindi celarsi altri casi di suicidi. Negli ultimi trent’anni, non era mai stato registrato un numero così alto. ll precedente drammatico primato era del 2009, quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone.

Oltre al valore in termini assoluti, altro importante indicatore è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero di decessi e le persone detenute mediamente presenti nel corso dell’anno. Anche in questo caso il 2022 ha già raggiunto il triste record, con 13,3 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute: il tasso più alto mai rilevato.

Se questi numeri fanno impressione già di per sé, il paragone con quanto avviene nella società esterna desta ancora più clamore. Mentre l’Italia in generale è considerato un Paese con un basso tasso di suicidi a livello europeo, se si guarda alle sue carceri la posizione in classifica cambia notevolmente, attestandosi al decimo posto tra i paesi del Consiglio d’Europa. Mettendo in relazione il tasso dei suicidi nel mondo libero con quello nel mondo recluso, vediamo come in carcere ci si uccida addirittura 20 volte di più rispetto a quanto non avvenga nella società esterna.

Guardando le biografie delle 73 persone che si sono tolte la vita in carcere vediamo come 5 fossero donne. Un numero altissimo in relazione agli anni precedenti e in generale alla percentuale di donne detenute, pari al 4% della popolazione detenuta totale. Altra percentuale impressionante è quella connessa alla nazionalità: quasi la metà dei suicidi sono stati commessi da detenuti di origine straniera. Molte erano poi le persone affette da disagi psichici o da dipendenze. Sembrerebbe infatti che circa un terzo dei casi riguardasse persone con una patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci.

Tutte le storie di queste persone sono ovviamente storie di grande dolore. Spesso storie di profonda solitudine e marginalità. Storie in molti casi di chi in carcere si trovava solo da pochissimo tempo o di chi avrebbe dovuto lasciarlo a breve. Storie persino di chi in carcere non ci sarebbero nemmeno dovuto essere. È questo il caso di G.T., un giovane ragazzo di 21 anni arrestato per il furto di un cellulare. A causa delle sue patologie psichiatriche, il Tribunale di Milano lo aveva dichiarato incompatibile con il regime carcerario chiedendo il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza). Dopo diversi mesi da quella pronuncia e un primo tentato suicidio, a fine maggio G.T. si è tolto la vita in una cella di San Vittore. Pochi giorni prima un altro ragazzo si era ucciso a poche celle di distanza. C’è poi la storia di A.G., anche lui ventenne, anche lui affetto da disagio psichico, anche lui con un tentato suicidio alle spalle. Neanche due settimane dopo il suo ingresso in carcere si è tolto la vita al Lorusso Cotugno di Torino. Non aveva precedenti penali e quello era il suo primo arresto. Altra storia tragica è quella di D.H., la giovane donna che prima di togliersi la vita nel carcere di Verona ha lasciato un biglietto d’addio al fidanzato. Il magistrato che da anni seguiva il suo caso, dopo il decesso della donna ha ammesso con dolore che con lei tutto il sistema aveva fallito. Tramite la testimonianza di un signore che ha contattato Antigone abbiamo poi saputo la triste storia di un uomo detenuto per aver rubato una pecora e chiesto il riscatto al proprietario. Affetto da disagio psichico, si è tolto la vita nel carcere di Castrovillari. Nessuno ne ha mai reclamato il corpo e dopo qualche settimana è stato sepolto nel cimitero della città a spese del comune. Per ultima, la storia recentissima di T.G., giovane uomo di origine africana toltosi la vita a fine ottobre nella sezione “nuovi giunti” del carcere di Torino dove si trovava da appena due giorni per il furto di un paio di cuffie bluetooth.

Ovviamente ogni storia è a sé, frutto di personali considerazioni e sofferenze. Quando i numeri diventano così alti, non possiamo però non guardarli nel loro insieme, come indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti. Seppur non è possibile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di quest’anno a ragioni precise, alcune considerazioni possono esser fatte. Il carcere di per sé è un sistema a cui accedono persone con alle spalle situazioni già di ampia complessità, che la società il più delle volte è incapace di gestire. Una volta accolte queste persone, il sistema carcere non riesce a sua volta a sostenerne i bisogni, non avendo né le caratteristiche né le risorse necessarie. A ciò si è aggiunta negli ultimi anni la pandemia e i vari effetti che essa ha avuto su tutta la popolazione, contribuendo in molti casi ad ampliare e acuire situazioni di già pregressa difficoltà.

Per cambiare il sistema gli interventi da apportare sono molti. Oltre a favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, è necessario migliorare la vita all’interno degli istituti.

Andrebbe a tal fine innanzitutto prevista una maggiore apertura con l’esterno, tramite più telefonate, videochiamate e colloqui. In tal senso si è espresso anche il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tramite una circolare diramata a fine settembre con la quale esorta le direzioni degli istituti a consentire un maggior numero di contatti tra persone detenute e i propri cari. Vedremo in futuro come sarà applicata questa direttiva, consci che solo una riforma del regolamento e delle norme che disciplinano i contatti con l’esterno possa avere un vero impatto, efficace e uniforme.

Andrebbe poi garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto dovrebbe avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi alla nuova condizione e il personale il tempo necessario ad identificare eventuali problematiche e fattori di rischio. Ogni istituto dovrebbe avere reparti per i nuovi giunti nei quali disporre un servizio di accoglienza strutturato, in cui le persone vengano informate sui diritti e sulle regole all’interno del penitenziario, fruiscano di colloqui con psicologi e/o psichiatri e beneficino sin da subito di contatti con i propri cari. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche alla fase di preparazione al rilascio a fine pena, affinché soprattutto per le persone che non dispongono di una rete solida all’esterno, esso non costituisca un momento traumatico da affrontare in totale assenza di supporto. La persona deve essere accompagnata al rientro in società e dotata dei principali strumenti necessari. Gli istituti devono così dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio.

Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta, perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone. In questi casi è sempre necessario garantire alcune ore di contatti umani significativi con il personale al fine di ridurre il rischio suicidario.

Questi sono solo alcuni dei tanti interventi necessari. Aspetti di una riforma di sistema in grado di migliorare la permanenza in carcere di tutte le persone detenute e, in particolare, di chi si trova in situazioni di profonda fragilità. Una riforma necessaria, per evitare che il carcere diventi sempre più catalizzatore di sofferenze e disperazione.

Sofia Antonelli

Associazione Antigone

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(*) Antigone, associazione politico-culturale, a cui aderiscono prevalentemente magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale. Antigone promuove elaborazioni e dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese e sulla sua evoluzione; raccoglie e divulga informazioni sulla realtà carceraria; cura la predisposizione di proposte di legge; promuove campagne di informazione e di sensibilizzazione su temi o aspetti particolari, comunque attinenti all’innalzamento del modello di civiltà giuridica del nostro Paese, anche attraverso la pubblicazione del quadrimestrale Antigone. Dal 1998 Antigone è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 Istituti penitenziari italiani.

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