La centralità dei miracoli nelle cause di canonizzazione

Dichiarare la santità di una persona non è come assegnare un titolo cavalleresco o onorifico. Anche se uno è in paradiso, può darsi che non sia degno, come sembra, di un culto pubblico. Stabilire l’eroicità delle virtù, attraverso tutto il lavoro di raccolta delle prove testimoniali e documentarie, di approfondimento storico-critico, di valutazione teologica fino al raggiungimento della certezza morale e alla formulazione del giudizio di merito, per quanto fondato, serio e accurato, può rimanere soggetto a possibile errore. Si può sbagliare, si può essere ingannati, i miracoli invece solo Dio può compierli, e Dio non inganna. Sono un dono gratuito di Dio, un segno certissimo della rivelazione, destinato a glorificare Dio, a suscitare e rafforzare la nostra fede, e sono anche, quindi, una conferma della santità della persona invocata. Il loro riconoscimento consente pertanto di dare con sicurezza la concessione del culto. In una causa di canonizzazione rappresentano una sanzione divina a un giudizio umano. Per questo motivo, senza l’approvazione di miracoli accaduti per intercessione di un servo di Dio o di un beato non si può dunque portare a conclusione una causa.

Attualmente per la beatificazione di un servo di Dio non martire la Chiesa chiede un miracolo, per la canonizzazione (anche di un martire) ne chiede un altro. Solo i presunti miracoli attribuiti all’intercessione di un servo di Dio o di un beato post mortem possono essere oggetto di verifica. Istruita quindi l’inchiesta, che è un vero e proprio processo, questa viene condotta separatamente da quella sulle virtù, sull’offerta della vita o sul martirio. Nel corso della procedura sono raccolte e vagliate tutte le prove acquisite riguardanti sia il fatto prodigioso in se stesso, per accertare l’evento miracoloso come tale, sia l’attribuzione di quel fatto all’intercessione di un determinato candidato agli onori degli altari. 

L’iter processuale per il riconoscimento del miracolo avviene secondo le nuove normative stabilite nell’83 dalla costituzione apostolica Divinus perfectionis Magister. La nuova legislazione stabilisce due momenti procedurali: quello diocesano e quello della Congregazione, detto romano.

Il primo si svolge nell’ambito della diocesi dove è accaduto il fatto prodigioso. Nella diocesi di Buenos Aires – Argentina, ad esempio, nel caso di quello attribuito a Gianna Beretta Molla. Il vescovo apre l’istruttoria sul presunto miracolo nella quale vengono raccolte sia le deposizioni dei testi oculari interrogati da un tribunale debitamente costituito, sia la completa documentazione clinica e strumentale inerente al caso.

Nel secondo, la Congregazione esamina l’insieme degli atti pervenuti e le eventuali documentazioni suppletive, pronunciando il giudizio di merito. I miracoli hanno sempre avuto una rilevanza centrale. Fin dai primi secoli, quando i vescovi si trovavano a dover concedere il culto per un non martire, prima di vagliare l’excellentia vitae e delle virtù, consideravano le prove dell’excellentia signorum.

Via via poi, nel corso dei secoli, si stabiliscono e si affinano le procedure d’indagine sui miracoli prima di procedere a una canonizzazione.

Urbano II, nel 1088, sancì che «non si possono ascrivere nel canone dei santi se non vi sono testimoni che dichiarano che i miracoli siano stati visti con propri occhi e sia confermato dall’assenso del Sinodo». Dal XIII secolo acquista importanza l’aspetto medico-legale e, con l’istituzione della Congregazione dei riti nel 1588, si riorganizza la materia. Si suggeriscono criteri, come la necessità di interrogare i testi qualificati e richiedere un parere medico, affinché il giudizio sia sempre dato sulla base delle perizie medico-legali e sulla base di testimoni oculari.

Benedetto XIV puntualizzò i criteri di valutazione e istituì il primo albo dei medici. Tutta questa secolare elaborazione confluì nel Codice di diritto canonico del 1917. Ma la procedura aveva un punto debole: la mancanza di distinzione fra il giudizio medico-scientifico e quello teologico. I teologi, infatti, dovevano dare un parere vincolante sulle conclusioni mediche senza avere competenza in materia.

Così Pio XII, nel 1948, decise di costituire la Commissione medica, poi Consulta medica, come organismo specifico di valutazione scientifica, e da questo momento in poi, fino ad oggi, l’esame è duplice: medico e teologico. L’esame collegiale della Consulta Medica e la discussione finale si concludono stabilendo esattamente la diagnosi della malattia, la prognosi, la terapia e la sua soluzione. La guarigione, per essere ritenuta oggetto di un possibile miracolo, deve essere giudicata dagli specialisti come rapida, completa, duratura e inspiegabile secondo le attuali cognizioni medico-scientifiche. Gli specialisti che ne prendono parte variano a seconda dei casi clinici presentati. Una volta raggiunta la maggioranza o l’unanimità nel voto, l’esame passa alla consulta dei teologi. I consultori teologi, partendo dalle conclusioni della Consulta medica, sono chiamati a individuare il nesso di causalità tra le preghiere al servo di Dio e la guarigione o altro inspiegabile evento di ordine tecnico, ed esprimono il parere che il fatto prodigioso è un vero miracolo. Il miracolo può superare le capacità della natura o quanto alla sostanza del fatto o quanto al soggetto, o solo quanto al modo di prodursi.

Si distinguono pertanto tre gradi di miracoli. Il primo grado è rappresentato dalla resurrezione di morti (quoad substantiam). Il secondo grado riguarda il soggetto (quoad subiectum): la malattia di una persona è giudicata inguaribile, nel suo corso può aver distrutto anche ossa o organi vitali; in questo caso non solo si riscontra la completa guarigione, ma anche la ricostituzione integrale di quegli organi (restitutio in integrum). C’è poi un terzo grado (quoad modum): la guarigione di una malattia, che la medicina avrebbe potuto conseguire solo dopo un lungo periodo, avviene istantaneamente.

Quando anche i teologi hanno espresso e redatto il loro voto, la valutazione passa alla Congregazione dei vescovi e cardinali, i quali, dopo aver ascoltato l’esposizione fatta da un “ponente”, discutono tutti gli elementi del miracolo: ciascun componente dà quindi il suo giudizio da sottoporre all’approvazione del papa, il quale determina il miracolo, e dispone poi di promulgarne il decreto.

Quando un miracolo accade, il beneficio non è solo per i diretti interessati ma per tutti i fedeli. A giusto titolo, il Concilio Vaticano II, parlando della intercessione dei santi, ha voluto inquadrarla nella vitale unione di carità che come fedeli si deve avere con essi. Quel vitale consortium per cui si può aver parte ai benefici procurati dai loro meriti e, amandoli di quella carità che tende a Dio, si forma con loro un solo corpo, una sola famiglia, una sola Chiesa. 

Stefania Falasca

Vice Presidente della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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