Al di là di ridondanti ovvietà e fuorvianti distinguo (c’è un invasore e un invaso, Putin è un dittatore, è meglio la democrazia, gli errori passati non giustificano la guerra… ecc., ecc.), e riducendo all’osso i termini della questione, potremmo sintetizzare come segue.
Le due potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, cioè gli Stati Uniti e la Russia (che all’epoca si esprimeva nel contesto dell’Unione Sovietica), si divisero l’Europa in zone di influenza e aprirono aree di confronto in altre parti del mondo. Nel nostro continente, la zona di influenza statunitense fu l’Europa occidentale, che comprendeva i Paesi sconfitti nel conflitto mondiale e i Paesi apparentemente vittoriosi (apparentemente, perché anche Francia e Regno Unito persero significanza come potenze mondiali), mentre la zona di influenza sovietica comprese l’Europa orientale. Entrambe le potenze, quindi, evitarono di stabilire una frontiera comune, o una linea di diretto confronto, circondandosi ognuna di Paesi da cui non aver niente da temere e sui quali poter esercitare influenza. Che le modalità di esercizio delle rispettive influenze siano state diverse è fattore di grande importanza, anche per quelli che furono i successivi sviluppi, ma non rileva nella cinica e pragmatica logica geostrategica delle potenze maggiori.
“Protette” dalle rispettive aree di influenza, Stati Uniti e Unione Sovietica crearono sistemi di difesa e consolidamento delle posizioni raggiunte. Per l’area occidentale, si trattò della NATO e di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea (UE); per l’area orientale, si trattò del Patto di Varsavia e del Consiglio di Mutua Assistenza Economica (COMECON). Da un lato prevalse la democrazia e il consenso fra alleati (dovremmo tuttavia chiederci che cosa sarebbe successo se qualcuno dei Paesi occidentali avesse voluto aderire al Patto di Varsavia o comunque avvicinarsi all’Unione Sovietica, ipotesi che scatenò una guerra civile in Grecia e che fu a lungo temuta per quanto riguarda l’Italia); dall’altro lato si consolidò l’autocrazia e la prevalenza del maggior alleato. I due blocchi, come furono chiamati, si affrontarono in una “guerra fredda” che durò circa quarantacinque anni (in realtà fu una “pace” fredda, giacché i due contendenti si guardavano in cagnesco, ma non scatenarono nessun conflitto sul continente europeo).
Il confronto economico, ideologico e sociale fra i due blocchi ebbe tuttavia un esito che non molti avrebbero previsto appena pochi anni prima: la “resa” della Russia, la quale, consapevole dell’impossibilità di raggiungere il blocco occidentale in quanto a ricchezza e benessere, si decise a sciogliere, con Gorbacêv, sia il sistema politico entro il quale controllava una vastissima area geografica, sia l’alleanza militare con la quale lo sosteneva. Insieme al generale decadimento delle speranze di sviluppo economico, due fattori contribuirono al progressivo indebolimento e poi alla caduta dell’Unione Sovietica. Il primo fu il Processo di Helsinki, che negli anni Settanta promosse e realizzò, nel comune accordo, il miglioramento dei rapporti economici e culturali fra le due aree e qualche progresso nella situazione dei diritti nei Paesi del blocco orientale; il secondo fu la disastrosa campagna afghana, che mostrò l’incapacità sovietica di sostenere con efficacia la proiezione del proprio sistema oltre le frontiere emerse dalla seconda guerra mondiale (anche a causa della pesante ingerenza degli Stati Uniti, che non esitarono ad appoggiare, rifornire e legittimare in funzione antisovietica i peggiori fondamentalisti e radicali islamici).
Nel perseguire il sogno di modernizzare e democratizzare la Russia, Gorbacêv si fece promotore di un secondo sogno: la creazione di una “casa comune europea”; vale a dire la creazione di un sistema di sicurezza sul nostro continente che superasse la logica della confrontazione e stabilisse un quadro generale entro il quale ciascun attore fosse riconosciuto in quanto a ruolo e a esigenze, e ogni comparto avrebbe contribuito, fra eguali, al mantenimento della stabilità e della pace. Il sogno abortì, ma possiamo immaginare che si sarebbe trattato di riconoscere i principali attori del continente, cioè Stati Uniti, Europa nel suo complesso (UE e Paesi precedentemente appartenenti al Patto di Varsavia) e Russia come protagonisti di pace, cooperazione e democrazia, sulla traccia degli esiti della guerra mondiale, su quella del Processo di Helsinki e su quella della “resa” della Russia al blocco occidentale e democratico. Una situazione che si sarebbe potuto accogliere, non certo per fare una cortesia alla Russia, ma perché avrebbe beneficiato tutti e avrebbe “imbrigliato” anche l’antico avversario dell’Occidente in un sistema che nessuno avrebbe avuto interesse a incrinare. Questo, però, avrebbe suddiviso il potere fra i diversi interlocutori (i citati Stati Uniti, Europa e Russia), laddove gli Stati Uniti si sentivano invece principale trionfatore della “guerra fredda” e principale dominus (attraverso la NATO) del continente.
Quello che oggi può sembrare un sogno irrealizzabile, fu oggetto di discussione anche nell’ambito dell’Alleanza Atlantica. La NATO, infatti, si ritrovò senza la sua principale ragion d’essere (la temuta aggressione da parte sovietica e la necessità di contrapporsi al Patto di Varsavia), e ci si pose anche la domanda se sciogliere o meno l’organizzazione. Fu deciso di mantenere sia l’Alleanza che la sua struttura militare, e questa fu una decisione saggia. I sedici Paesi che allora componevano entrambe (la Francia non era nella struttura militare, ma vi rientrò poi) rappresentavano un insieme compatto, unito da una comune motivazione di difesa e dalla condivisione di importanti valori: un patrimonio da non disperdere. Tuttavia, non era più possibile autodefinirsi come il bastione rivolto contro un pericolo che sembrava non più esistere, e si trattava anche di non lasciare i Paesi dell’Est in un “vuoto di sicurezza”, come si disse allora. Si elaborarono per questo nuovi strumenti di collaborazione e consultazione: la Partnership for Peace (PfP), che comprendeva programmi di collaborazione e addestramento all’interoperabilità militare fra la NATO e ciascun Paese un tempo avversario, Russia compresa; e il Consiglio di Partenariato Euro-Atlantico (EAPC, nell’acronimo inglese), entro cui i membri dell’Alleanza Atlantica e i Paesi già avversari, Russia compresa, si consultavano su materie di stabilità e sicurezza, peraltro molto generiche. Era all’ordine del giorno l’esigenza, molto avvertita dai membri europei dell’Alleanza, di non isolare e non allarmare la Russia nell’adottare politiche che potessero esser viste da Mosca come ostili. Si giunse a concepire in modo abbozzato addirittura l’ipotesi di una “nuova architettura di sicurezza” in Europa, ipotesi che fu affossata dagli Stati Uniti, preoccupati di perdere la primazia sul continente.
Insomma, qualcosa nel senso di una sicurezza condivisa si poteva fare. C’era un diffuso spirito di collaborazione, c’era l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) con i suoi principi (tutela delle minoranze, diplomazia preventiva, risoluzione pacifica dei conflitti…), e c’era tutto il materiale, del resto utilizzato in passato, per garanzie reciproche, misure di fiducia, controlli incrociati sugli armamenti, e così via. Fu scelta invece la via degli allargamenti, promossa su vivace impulso di Washington e desiderata, per ovvie ragioni storiche, dai Paesi ex–Patto di Varsavia. Furono impostate anche iniziative di collaborazione con Mosca, come il Funding Act, che prevedeva varie materie di consultazione NATO-Russia, le quali non ebbero tuttavia la forza, né i contenuti geostrategici, delle successive ondate di allargamento.
Senza troppo dilungarci, gli esiti di tutto questo furono vari. La NATO perse compattezza, perché i nuovi arrivati erano portatori di visioni diverse da quelle dei Paesi dell’Europa occidentale; gli Stati Uniti accrebbero il proprio potere di “grande Alleato”, potendo ora contare, entro l’Alleanza, dell’assoluto e acritico favore dei nuovi membri, i quali vedono nell’America, piuttosto che in un’indistinta Europa e in una altrettanto indistinta “identità europea” nella NATO, la chiave della loro sicurezza nei confronti di una sempre temuta Russia. Quest’ultima, a torto o a ragione, ha gradualmente perso ogni fiducia nel comportamento e nelle dichiarazioni del comparto occidentale, soprattutto quando ha visto quest’ultimo attaccare disinvoltamente alleati di Mosca nel mondo (Iraq, Siria, Libia) e collaborare con grande intensità con Paesi limitrofi alla Russia, come l’Ucraina, benché non (o non ancora) membri dell’Alleanza. La Russia, quindi, nel timore che l’espansione della NATO potesse giungere alle proprie frontiere, ha avviato la famosa “operazione militare” in Ucraina, intervenendo con le armi in un Paese dove ritiene di affermare o difendere i propri interessi; esattamente come hanno fatto tutte le potenze nella storia e come segnatamente hanno fatto in epoca contemporanea gli Stati Uniti, con o senza l’aiuto della NATO (Corea, Vietnam, Grenada, Iraq, Afghanistan, Libia…).
Considerato quanto sopra, si dovrebbe evincere che la Russia ha attaccato (tatticamente) l’Ucraina perché non ha potuto conseguire a suo tempo l’obiettivo strategico di una condivisa architettura di sicurezza in Europa entro la quale avere un ruolo paritario rispetto a Unione Europea e NATO. Quest’ultima considerazione (e lo evidenzia il tentativo, certo maldestro, ma troppo rapidamente affossato, dell’iniziativa italiana) dovrebbe dare qualche suggerimento ai promotori della pace, se ve ne sono: mettere contemporaneamente sul piatto una generale ridiscussione della sicurezza europea per ottenere l’allentamento delle pretese russe sull’Ucraina e aprire le prospettive per una pace durevole nel nostro continente.