Il fallimento del referendum sulla giustizia e la schizofrenia della politica

Meno del 21% del corpo elettorale ha risposto alla chiamata referendaria con la quale si chiedeva di abrogare (parzialmente) la “legge Severino” per l’incandidabilità dopo la condanna penale (anche) non definitiva; la disciplina delle misure cautelari penali; quella della separazione delle funzioni dei magistrati; della valutazione dei magistrati da parte dei membri laici dei consigli giudiziari e delle firme necessarie per le candidature al Csm.

Disaffezione, quesiti mal posti?

Legge Severino: eliminare l’automatismo tra condanna (anche non definitiva) ed incandidabilità, rimettendo al giudice la valutazione caso per caso, questa la prospettiva dei promotori dei referendum. Singolare che – in un clima di generale sfiducia verso la magistratura come quello attuale – s’invocasse la discrezionalità del giudice in una materia sensibile come questa, essendo agevole prevedere le polemiche che sarebbero scaturite sulle decisioni dei giudici nei singoli casi, facilmente strumentalizzabili come politicamente “orientate”.

Misure cautelari penali: limitarne l’applicabilità nell’ipotesi di pericolo di reiterazione del reato si scontra con l’indignazione che si registra ogni volta che un crimine venga commesso da un soggetto che, avendo già denotato sintomi di reità, risulti libero di delinquere. L’equilibrio tra difesa sociale e libertà dell’individuo è tema troppo complesso e delicato per essere lasciato all’accetta referendaria.

La separazione delle funzioni tra magistratura giudicante e pubblici ministeri è sostanzialmente già in atto, essendo assai rari i passaggi da una funzione all’altra. Limitare ad uno soltanto il passaggio di funzioni non avrebbe comunque evitato che molti pubblici ministeri concludano la carriera da presidenti delle sezioni (giudicanti) penali della Corte di Cassazione, né la presenza di entrambe le categorie di magistrati nel CSM e nei Consigli Giudiziari.

Ammettere gli avvocati alla valutazione dei magistrati (cosa che peraltro già avviene al CSM ove i membri laici sono spesso, per l’appunto, avvocati), in assenza di reciprocità per giunta, avrebbe semmai acuito e non certo risolto l’anomalia per la quale una “parte” (oggi il pubblico ministero) ha voce in capitolo sulla vita professionale del giudice.

Venticinque firme per candidarsi al CSM non si negano a nessuno, non è mai stato quello il problema; davvero imperdonabile pensare di agire in questo modo sul “correntismo” e sugli eserciti elettorali che proprio in questi giorni si appresta a movimentare, in vista del rinnovo del CSM che avverrà a settembre.

Sono, quelle che precedono, valutazioni di merito che si prestano, com’è naturale, a visioni di segno opposto; non è certo nel merito dei quesiti referendari, infatti, che va ricercata la causa della mancata risposta del corpo elettorale.

Occorre piuttosto guardare alla concomitante pseudo riforma della giustizia messa in campo dal Governo e da poco approvata dal Parlamento.

Le forze politiche della maggioranza governativa, cioè tutte ad eccezione di un solo partito, hanno votato il disegno di legge di delega, su impulso del Ministro della Giustizia.

Ovvio, allora, che risultasse poco convinto e quindi non credibile il sostegno all’iniziativa referendaria apparentemente offerto proprio da quegli stessi partiti politici, che avevano appena contribuito a licenziare un testo conservatore e per nulla risolutivo dei problemi della giustizia in Italia. Nulla è stato fatto contro la politicizzazione della magistratura, anzi rafforzata con un sistema elettorale del CSM votato al maggioritario; nulla per accelerare i processi, essendosi speso molto denaro per reclutare manovalanza sottopagata anziché nuovi magistrati o impegnare ulteriori risorse nella digitalizzazione dei processi civili e penali; nulla per liberare i magistrati non allineati dalla morsa del correntismo, al quale sono stati attribuiti poteri ancora più ampi.

Il disorientamento del corpo elettorale è comprensibile nella stessa misura in cui schizofrenico dev’essere apparso lo sprone di alcuni partiti politici che invogliavano – sia consentito dire, alquanto ipocritamente – al “Sì”: ma come, chiedi a me quello che tu non hai voluto fare, pur potendo?

Si è addotta, a giustificazione della scarsa efficacia delle ipotesi abrogative, anche la difficoltà di intervenire sulla materia della giustizia senza coinvolgere norme costituzionali, per loro stessa natura sottratte alla possibilità d’essere abrogate con referendum popolare.

Il che è senz’altro vero, come anche è vero che la Costituzione può essere modificata senza toccarne alcuno degli articoli.

Un esempio valga per tutti.

Il pubblico ministero all’epoca della promulgazione della Costituzione era una figura del tutto diversa da quella introdotta col codice di procedura penale del 1988. Il suo ruolo era, per così dire, ancillare e subalterno rispetto a quello del giudice (istruttore) e svolgeva indagini solo sommarie salvo cedere il passo al giudice istruttore per i casi meno semplici; nel giudizio sosteneva, sì, l’accusa ma sulla base delle carte formate dal giudice istruttore. La gerarchia negli uffici del pubblico ministero era notevolmente attenuata dalla stretta vicinanza ai giudici che giustificava, nel precedente assetto processuale, la convivenza di accusatori e giudici sotto il medesimo tetto dell’ordine giudiziario di accusatori e giudici, potendo il togato transitare senza limiti da una funzione all’altra, a sua scelta.

Nel 1988 il pubblico ministero è stato reso “padrone” delle indagini, oltreché titolare esclusivo dell’obbligo (costituzionale) di esercitare l’azione penale. Disarcionata la magistratura giudicante dai compiti istruttori e conferito il carattere della segretezza alla fase delle indagini preliminari (ma non più sommarie) sì è esaltato il ruolo di vera e propria parte del pubblico ministero, in seguito fortemente gerarchizzato con attribuzione al procuratore (ormai) “capo” di penetranti poteri sull’operato dei sostituti, di fatto a lui sott’ordinati e quindi molto distanti dal giudice, per definizione “soggetto soltanto alla legge”. Sono stati introdotti stringenti limiti alla possibilità di transitare dalla funzione di pubblico ministero a quella di giudice. Parte pubblica, ma parte che opera sulla base delle carte (indagini) raccolte (o non raccolte) in piena autonomia senza alcun controllo giurisdizionale. Che debba cercare anche elementi favorevoli all’incolpabile è regola il cui rispetto, proprio per l’assenza di ogni controllo esterno all’ufficio del pubblico ministero, è rimesso alla sola coscienza dell’obbligato. Che, a quanto pare, le prove favorevoli all’imputato talvolta addirittura le nasconde.

Come ognuno può vedere, gli articoli della Costituzione che riguardano il pubblico ministero non sono cambiati.

Ad essere cambiato è il pubblico ministero.

L’appartenenza allo stesso ordine non costituisce più un’opportunità per affermare “la comune cultura della giurisdizione”, bensì introduce il rischio che il giudice sia contaminato dal principio di gerarchia che lo allontanerebbe dal rapporto diretto con la legge.

È allora fondato il dubbio che Il Costituente, al cospetto dell’attuale assetto di accusatori e giudici determinato dalla legge ordinaria, non avrebbe concepito regole che a molti oggi appaiono ingiustificate.

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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