La commistione tra politica e magistratura.
Il CSM

All’indomani dell’affaire Palamara il Capo dello Stato espresse il suo grave sconcerto e riprovazione per quanto emerso, stigmatizzando la degenerazione del sistema correntizio e l’inammissibile commistione fra politici e magistrati. Di qui l’invito al Parlamento a por mano alle regole di formazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Questa, dunque, l’origine (o il pretesto?) dell’iniziativa legislativa governativa che avrebbe dovuto cambiare i connotati del CSM con due precisi obiettivi: arginare il correntismo ed evitare la commistione tra politica e magistratura.

Il testo partorito dal Governo è in questi giorni in via di approvazione al Senato e l’Associazione Nazionale Magistrati ha indetto uno sciopero per il prossimo 16 maggio, sebbene l’intervento che aspira ad essere “riformatore” fallisca entrambi gli obiettivi indicati dal Presidente della Repubblica.

Il correntismo consiste nell’indebita strumentalizzazione di una libertà costituzionale, quella di associazione (art. 18 Cost.), ad opera dei magistrati che ne usano per occupare l’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura e quindi orientare l’azione di quell’organo secondo schemi ideologici o comunque interessi di parte. Chi diventa consigliere superiore lo deve alla corrente – un’associazione privata, ricordiamo – che ne ha sostenuto la candidatura ed in seno al CSM aderirà al “gruppo” che dalla corrente prende il nome.

L’ideologia, o comunque l’interesse, guiderà le scelte del consigliere superiore che, per essere efficaci, devono rispondere, per l’appunto, ad una logica di “gruppo”: se tutti votassero liberamente su ciascuna pratica ne risulterebbe vanificata la forza politica della corrente, quella che consente di ottenere risultati che si contano (e si pesano) con gli incarichi apicali divenuti appannaggio degli adepti, cioè degli appartenenti alle diverse associazioni private di togati.

Il CSM assume così l’improprio compito di indirizzare l’attività giudiziaria poiché i magistrati ambiziosi, per convinzione o per convenienza, tendono ad assecondare le ideologie dominanti nelle più disparate materie che toccano la carne viva del dibattito politico generale.

Indirizzo politico del CSM, che non si attua soltanto con i “premi” costituiti dalla distribuzione di incarichi ambiti, ma anche, all’evenienza, osteggiando i renitenti con lo strumento disciplinare e quello del trasferimento d’ufficio per la cd. incompatibilità ambientale, sempre più divenuta incompatibilità col “Sistema”.

È per questo che non deve sorprendere se un’indagine, ad esempio in materia di immigrazione, sia accompagnata dalla prudente verifica del “consenso” che sulla stessa si registri presso l’organo di governo dei magistrati.

Se non altro ad evitare pericoli come quelli nei quali incorrono i meno avveduti, ai quali non viene più sottratto d’imperio il fascicolo con l’arcaico strumento dell’avocazione come accadeva in passato (istituto del quale, invero, si sono perse le tracce), bensì col trasferimento di sede e di funzioni dell’imprudente.

Così semplificato, com’è imposto dai limiti di spazio di questo testo, il concetto di correntismo reca in sé un significato intrinsecamente “politico”: ideologia ed appartenenza condizionano l’operare concreto della giurisdizione, attraverso le leve del “comando”, che si esprime nell’esercizio dei poteri di promozione e di punizione dei magistrati la cui organizzazione gerarchica è ormai un fenomeno inarrestabile, assecondato e mai osteggiato proprio dal Consiglio Superiore della Magistratura. 

Alla tanto esaltata “comune cultura della giurisdizione”, che giustificherebbe la presenza di accusatori e di giudici nello stesso ordine, vanno inesorabilmente sostituendosi la gerarchia e la burocratizzazione, propri degli uffici di Procura. Sono i rischi della mescolanza: pregi e difetti si combinano in modo piuttosto casuale, a voler essere ingenui.

Su questo fronte la riforma governativa assume piuttosto il sapore di una conferma.

La blanda modifica del sistema elettorale non incide sulla sostanza del Consiglio Superiore della Magistratura, che rimane “politica” e ciò non per una scelta del Costituente – che anzi contrastò questa deriva in plurime disposizioni – ma proprio per effetto delle leggi elettorali che, per disattenzione o complicità, assecondano, da sempre, il ruolo indebitamente politico del CSM.

È, dunque, del tutto assente la risposta al primo problema segnalato dal Capo dello Stato.

La commistione tra politica e magistratura, autorevolmente giudicata come “inammissibile”, altro non è che una conseguenza della politicità del CSM. Se ai magistrati è consentito di organizzarsi politicamente al fine di occupare l’istituzione che li amministra, la commistione è nella natura delle cose.

Su questo versante l’intervento che aspira ad essere riformatore pecca addirittura di banalità, esibisce una certa dose di rozzezza. Perché agisce sul solo versante delle candidature dei magistrati in politica, osteggiandole col divieto di riassunzione delle funzioni giudicanti o requirenti dopo la competizione elettorale. In questo caso senza quegli scrupoli d’ordine costituzionale, che hanno invece impedito di intervenire efficacemente sul sistema di “formazione” del CSM con il sorteggio temperato dei candidati, se è vero che la Costituzione consente di limitare il diritto di iscrizione a partiti politici dei magistrati, ma non quello di assumere cariche elettive.

Un togato eletto in parlamento non dà luogo ad alcuna “commistione”, perché se fa il parlamentare non fa il magistrato e viceversa. È quindi, un fenomeno del tutto diverso da quello denunciato dal Capo dello Stato ed in ogni caso il divieto di essere nuovamente assegnato a compiti giurisdizionali non elimina il sospetto che la pregressa attività del togato fosse ispirata da finalità improprie.

La commistione si realizza, piuttosto, attraverso la chiamata politica del magistrato a compiti che non sono quelli per i quali è stato assunto, quasi sempre meglio retribuiti rispetto al suo stipendio. Su questo non si è in alcun modo intervenuti e la cosa non deve sorprendere se si considera che proprio mentre era in corso il dibattito politico su questi temi, il Ministro della Giustizia ha illustrato la scelta del nuovo direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria richiamando l’idea politica del togato prescelto in ordine al trattamento del detenuto. E continuerà ad apparire accettabile che un ex capo di gabinetto assuma la direzione di importanti uffici inquirenti, prevalendo su chi ha svolto esclusivamente il compito suo proprio di indagante.

Se questi sono i – legittimi, allo stato – criteri di selezione dei magistrati chiamati a collaborare con la politica assumendo ruoli apicali nell’alta amministrazione è contraddittorio lamentarsene denunciando la “commistione” tra politica e magistratura.

Entrambi gli obiettivi indicati dal Presidente della Repubblica possono dirsi, quindi, mancati.

Ciò non toglie che ogni occasione è un buon pretesto per interventi latamente punitivi verso gli odiati “arbitri”, senza i quali, tuttavia, non si gioca nessuna partita.

Ed ecco spuntare il tema del “merito” dei magistrati, che ha prodotto la tanto pubblicizzata idea del fascicolo delle performance, nel quale annotare i loro insuccessi rappresentati dalla mancata conferma delle decisioni o dall’esito assolutorio, quanto alle indagini penali.

Premesso che una simile impostazione non fa che sollecitare, piuttosto che arginarle, le pulsioni carrieristiche che sono il tallone d’Achille di un magistrato, il tema è introdotto su presupposti inconsistenti e questo è avvenuto in concomitanza con notizia secondo la quale all’ultimo concorso in magistratura i candidati selezionati come idonei erano risultati in numero assai inferiore a quello dei posti messi a concorso. Ciò, in un quadro che non segnala quanti prefetti, questori, ufficiali, medici, dirigenti pubblici, siano dispensati dal servizio per non aver prodotto performances accettabili.

Perché il destino del magistrato che non superasse la quadriennale valutazione di professionalità è proprio quello della dispensa dal servizio, il licenziamento insomma.

Proprio quel concetto di “carriera”, bandito dal Costituente nel terzo comma dell’art. 107 Cost., viene usato imprudentemente come strumento di pressione che ha l’unico risultato di togliere serenità al giudizio, consegnando il singolo magistrato alle dubbie valutazioni di un Sistema che sul correntismo continua a basarsi grazie ad una riforma di mera facciata, sorprendentemente propugnata da un Ministro della Giustizia consapevole che “nel nostro paese si è creato il problema della garanzia dell’indipendenza del singolo giudice anche all’interno della stessa magistratura“.

Nicola Saracino

consigliere di Corte d’Appello a Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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