Inflazione: la BCE ad un pericoloso bivio

Gli ultimi dati disponibili indicano che l’inflazione negli USA si è attestata, su base annua, intorno all’ 8,5%, mentre quella dell’Eurozona, misurata ad aprile, ha raggiunto il 7,5%. Sembrano dati simili, ma, in realtà, si tratta di inflazioni molto diverse tra loro. Infatti, l’inflazione USA deriva essenzialmente da un progressivo surriscaldamento dell’economia americana amplificato dalle strozzature che si sono create nella catena di approvvigionamenti di beni e servizi nella fase post lock down. Si tratta, dunque, sostanzialmente, di una inflazione da domanda nell’ambito della quale il peso dei prezzi delle fonti energetiche appare ancora abbastanza limitato. E questo è dimostrato anche dal fatto che “l’inflazione core”, ossia quella misurata stralciando le voci relative alle fonti energetiche ed all’alimentare fresco, rimane comunque molto alta, attestandosi intorno al 6,5%.

In questo scenario, la FED, preoccupata anche dalla lievitazione delle richieste salariali connesse all’aumento del costo della vita, ha imboccato con decisione la strada delle politiche monetarie restrittive al fine di raffreddare la spirale inflazionistica. Più in particolare, la banca centrarle americana ha già effettuato due aumenti di tasso: il primo a marzo dello 0,25% ed il secondo a maggio di un ulteriore 0,50%. Da evidenziare, a tal proposito, che si è trattato della prima stretta di 50 punti base da 22 anni a questa parte e che il governatore della sede di S. Louis aveva richiesto un incremento dei tassi addirittura dello 0,75%. Il punto cruciale è che la FED ha potuto decidere di affrontare in maniera così decisa l’inflazione per il semplice fatto che non ritiene che l’aumento dei tassi possa danneggiare in maniera significativa una economia considerata, anche prospetticamente, solida e ben impostata. Il tutto, ovviamente, anche in considerazione della sostanziale assenza di una dipendenza dalle fonti energetiche russe.

Diversa la posizione della BCE che, nella sua lotta all’inflazione nell’Eurozona, si trova a dover affrontare in contemporanea due problemi. Il primo riguarda i tassi. L’inflazione europea, infatti, non è una inflazione da surriscaldamento dell’economia, ma è una inflazione da carenza di beni e servizi derivante, inizialmente, dalle strozzature post lock down e, successivamente, dalle conseguenze della crisi ucraina. Il punto è che in presenza di questo tipo di inflazione da offerta, la leva dei tassi azionata negli USA può limitare i danni causati da una spirale inflazionistica, ma non è certo in grado di risolvere il problema a monte. In sostanza, se i russi chiudono i rubinetti facendo esplodere il prezzo del gas, poco può fare l’innalzamento dei tassi di interesse. Il secondo problema è legato al fatto che l’inflazione dell’Eurozona è molto contagiosa, in quanto colpisce a monte i processi produttivi. Infatti, nel momento in cui a causa della crisi Cov-energetica lievitano contemporaneamente sia i prezzi delle materie prime e semilavorati, sia i prezzi di gas ed elettricità, è evidente che le conseguenze per il tessuto produttivo possono esser pesantissime. Più in particolare, da una parte, vengono attirati nella spirale inflazionistica un numero sempre maggiore di categorie di beni oltre a quelli energetici. Dall’altra, il contagio, va a toccare direttamente le aziende. Infatti, specie in Italia il tessuto produttivo è spesso caratterizzato dalla presenza di grandi aziende energivore che fungono da capostipite di lunghe filiere produttive. Anche nel caso in cui le PMI a valle non fossero direttamente colpite dall’esplosione dei costi energetici o dalle conseguenze commerciali delle sanzioni, sarebbero comunque contagiate dalle difficoltà delle grandi energivore a monte. In questo contesto, purtroppo, tende ad innestarsi una sequenza molto pericolosa. Infatti, l’azienda, a fronte dell’aumento dei costi di produzione, prima comprime i margini, poi tenta di ridurre i costi energetici attivando escamotages quali produzioni notturne e turni di lavoro nei weekend. Infine, spesso, nell’impossibilità di scaricare a valle i maggiori costi, deve ridurre la produzione e magari mettere schiere di operai in cassa integrazione. A questo punto, però, lo scenario si modifica perché l’inflazione da offerta si trasforma in una stagflazione caratterizzata dalla contemporanea presenza di elevata inflazione e stagnazione dell’economia. Il problema è che, in questa ipotesi, la BCE si trova di fronte ad un pericolosissimo bivio: aumentare rapidamente i tassi sulla scia della FED con conseguente riduzione del rischio inflazione ed aumento del rischio recessione. O, al contrario, rendere estremamente soft e graduale la manovra sui tassi in maniera da sostenere il tessuto produttivo europeo anche a costo di incrementare il rischio inflazionistico. E, nell’attuale situazione di incertezza senza precedenti la decisione non è affatto facile. Nel 2008 Trichet, allora presidente della BCE, spaventato dall’aumento dei prezzi di petrolio e dei generi alimentari, decise di alzare bruscamente i tassi di interesse. Peccato che, così facendo, contribuì non poco a trascinare l’economia europea verso una recessione con ben pochi precedenti.         

Andrea Ferretti

Economista, docente al corso di economia delle imprese familiari – Univerona

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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