Hanno detto… sul numero 40, aprile 2022 • anno 4

Vincenzo Terranova
La previsione e l’utilizzo degli strumenti di carattere preventivo, delineati nella legge n. 646 del 13.09.1982, nota come legge “Rognoni-La Torre”, sono stati una risposta dell’ordinamento alle mutate modalità operative delle organizzazioni mafiose.
Ma se gli accertamenti patrimoniali in prevenzione finalizzati all’applicazione delle misure ablatorie su beni, patrimoni e attività degli indiziati o a questi collegati sono stati e sono tuttora un punto di forza della lotta alla criminalità organizzata, per la stessa ragione va posta molta attenzione al sistema delle interdittive, essendo sufficiente la presunzione di pericolosità sociale per la loro applicazione, prima che sia pronunciata la sentenza penale di condanna.
Tendere alla realizzazione del “giusto equilibrio tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo” (art. 1 CEDU), è certo un criterio da tenere sempre a guida.
Vanificare però l’efficacia della legge in punto di applicazione delle misure di prevenzione, depotenziando od addirittura eliminando la possibilità di applicarle prima dell’intervento della sentenza di condanna, vanificherebbe tutto il lavoro svolto finora, il prezzo pagato con la vita di chi ne è stato il fautore – sia l’onorevole Pio La Torre che il giudice Cesare Terranova sono stati uccisi dalla mafia – e gli innegabili successi alla lotta alle mafie conseguenti al sistema introdotto.
A distanza di quarant’anni dall’emanazione della legge Rognoni – La Torre, questa, grazie anche alle modifiche introdotte nel tempo, costituisce ancora uno degli strumenti più efficaci nella lotta alla criminalità organizzata, a riprova di come le analisi compitamente svolte da Pio La Torre e Cesare Terranova, cristallizzate nella relazione parlamentare di minoranza della Commissione antimafia del 1976, siano ancora valide.

Tommaso Miele
Per dare attuazione agli istituti di semplificazione previsti dalla legge n. 241/1990, ci sono volute ben quindici riforme e numerose iniziative per superare le resistenze opposte dalla burocrazia. Per questo occorre una rivoluzione culturale, senza la quale nessuna innovazione tecnologica e nessuna semplificazione possono aver luogo.
Rivoluzione culturale significa che la funzione amministrativa non deve più essere intesa come potere. Il freno all’attuazione di alcuni istituti di semplificazione previsti dalla legge 241 è stato rappresentato proprio dalla burocrazia, perché la funzione amministrativa è stata assai spesso intesa come potere, il potere che agevola anche la corruzione, ancora assai diffusa nelle nostre amministrazioni.
Occorre una pubblica amministrazione che agisca secondo i più elementari principi dell’etica. E l’etica vuole che la funzione non diventi mai potere. La funzione è neutra. Essa diventa potere quando se ne abusa e quando la si indirizza a fini diversi da quelli stabiliti dalla legge.
Un profondo rinnovamento culturale è necessario anche per rendere effettive le funzioni amministrative attraverso il principio di sussidiarietà, che è un principio nuovo, introdotto con la riforma costituzionale del 2001, che non ha, tuttavia, trovato grande attuazione, soprattutto perché gli enti più vicini ai cittadini, quelli che dovrebbero svolgere la gran parte delle funzioni, non hanno avuto le risorse necessarie. E trasferire le funzioni senza trasferire le risorse significa trasferire solo le responsabilità.

Andrea Reale
Non siamo e non vogliamo essere una corrente. Non abbiamo alcuna organizzazione e rivendichiamo la nostra appartenenza all’unica associazione di magistrati nel cui statuto ci riconosciamo, ossia l’ANM. Centouno è il numero che racchiude forse il più grande e più importante principio che dovrebbe sempre connotare la funzione che siamo chiamati a svolgere: quello di soggezione soltanto alla legge. Nessuna dipendenza da altri poteri dello Stato, nessuna subordinazione ai potentati interni alla magistratura.
Abbiamo raccolto 651 voti alle ultime elezioni per il rinnovo del comitato direttivo centrale, pari a quasi il 15% dei votanti. Nel recente referendum associativo l’idea che più ci connota e ci caratterizza come gruppo associativo (una legge elettorale per il CSM basata sul sorteggio come metodo di scelta dei componenti togati) ha ottenuto quasi 1.800 preferenze, pari a circa il 42% dei votanti.
Siamo uniti dal comune desiderio di avviare una vera autoriforma della magistratura associata, oggi prostrata dal male del “correntismo”.
Oggi l’ANM sembra una succursale della partitocrazia politica.

Paolo Arrigoni
Se l’Italia, che al momento ha ben tredici centrali nucleari collocate a meno di 200 chilometri dai propri confini, vuole perseguire il Green Deal e la decarbonizzazione con gli obiettivi di emissione zero al 2050 per contrastare i cambiamenti climatici, se vuole rispondere alla domanda sempre crescente di energia elettrica per una progressiva elettrificazione dei consumi, se deve disporre di un sistema energetico sicuro e stabile che le rinnovabili come fotovoltaico ed eolico da sole non possono garantire, se vorrà a medio-lungo termine passare dal gas all’idrogeno e produrre quest’ultimo senza emissioni, deve comprendere che non ci sono alternative ed è inevitabile che il nucleare avrà un ruolo importante e imprescindibile nel futuro.
Dobbiamo bandire l’ideologia, riaprire nel nostro Paese un dibattito con rigore scientifico, senza pregiudizi, e analizzare vantaggi, costi e rischi degli impianti di ultima generazione, molto diversi rispetto a quelli che provocarono i disastri di Chernobyl e Fukushima. In proposito è giusto tenere in considerazione i due referendum che si sono svolti nel 1987 e nel 2011, ma bisogna ricordare che entrambi si sono svolti in un momento storico molto diverso da quello attuale e che se vogliamo parlare di sicurezza allora dobbiamo tenere presente le statistiche: per uno studio dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica e di Forbes, che ha calcolato il numero di morti per miliardo di kWh di energia prodotta, il nucleare risulta la fonte di energia più sicura a fronte del carbone, di gran lunga il meno sicuro, seguito da petrolio, biomasse, gas naturale, idroelettrico, solare ed eolico.

Giuliano Castiglia
Non è un caso che il trasferimento per c.d. “incompatibilità ambientale” abbia rappresentato per cinquant’anni il migliore strumento per osteggiare magistrati non in linea col pensiero dominante.
Un comodo e più agile duplicato, insomma, del procedimento disciplinare al quale poteva farsi ricorso solo se il magistrato avesse compromesso «il prestigio dell’ordine giudiziario».
Basti pensare che Paolo Borsellino, per avere denunciato l’affossamento del pool antimafia, rischiò l’intervento del CSM proprio in forza dell’art. 2 della legge sulle guarentigie, scampando in extremis il trasferimento, anche grazie al fatto che Giovanni Falcone, in battaglia durissima con il CSM, mise sul piatto della bilancia la richiesta di trasferimento dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.
il CSM ha continuato a ricorrere al trasferimento per incompatibilità ambientale esattamente come faceva il Ministro di Grazia e Giustizia in era pre-costituzionale.
In barba alla tassatività dei motivi la cui determinazione il Costituente aveva riservato alla legge, ancor oggi inadempiente.
In tale contesto, a fronte di un Ministro desideroso di rafforzare l’indipendenza interna dei magistrati (quella, cioè, dallo stesso CSM), tutto ci si sarebbe potuto attendere tranne che la regressione del livello delle garanzie, anche formalmente, a un’epoca nella quale la Costituzione repubblicana non era stata neppure pensata, così tradendone platealmente l’univoca indicazione di migliorarle.
La nuova previsione, infatti, legittimerebbe il trasferimento d’ufficio dei magistrati per qualsiasi causa.

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