Le ultime riforme sulla giustizia penale

È noto che le pressanti esigenze di innovazione nel sistema penale e nel sistema civile sono dovute a due ragioni: quella di porre rimedio alla eccessiva, endemica, lentezza dei processi, quella di rispondere con i fatti alle attese – inderogabili, e proiettate verso aspettative di concretezza – dell’Unione Europea.

Le innovazioni nel processo civile appaiono soddisfacenti e realistiche.

Anche nell’àmbito del diritto penalprocessuale sono state prodotte regole interessanti, vòlte verso il perfezionamento del complesso normativo e dirette ad innovare in alcuni tra gli istituti abbandonati ad inutili formalismi e mantenuti in vita con il rischio di essere adoperati da quanti, nella inefficienza del sistema, trovano il rimedio per eludere le aspettative di giustizia dello Stato o delle parti del processo.

I temi di quest’ultima riforma hanno spaziato tra regole di diritto sostanziale e regole di diritto processuale

Tra queste, occorre segnalare:

  • i sistemi di notifica all’imputato (meglio razionalizzati);
  • l’istituto del processo in assenza, notoriamente fonte di frequenti ritardi;
  • lo strumento della tempestiva iscrizione delle notizie di reato;
  • le regole sulla indagine preliminare e sulle limitazioni dei tempi di essa (queste ultime, per fortuna, mitigate con la possibilità di proroghe o con ampiezza di termini in taluni tipi di reato);
  • la disciplina dell’udienza preliminare;
  • le disposizioni sulla materia dei procedimenti speciali, proiettate verso un uso più frequente ed efficace di tali forme di procedimenti: dal giudizio abbreviato, al patteggiamento, al giudizio per decreto;
  • la fase del giudizio e il caso del mutamento del giudice; una evenienza, quest’ultima, niente affatto rara e causa di ritardi e di rinvii (forse poteva farsi di più sul punto della incisività);
  • la fase dell’impugnazione, per la quale, tra l’altro, è previsto l’obbligo di elezione del domicilio nell’atto di impugnazione;
  • nei procedimenti di impugnazione, in cui, tra l’altro, sono previsti la ampia possibilità di trattazione con il rito camerale, salvo che le parti non ne facciano richiesta di partecipazione; un filtro più attento sui motivi di impugnazione;
  • anche nei giudizi di legittimità la forma sarà di norma quella di un contraddittorio scritto, salva la possibilità delle parti di richiedere la discussione orale in udienza o in camera di consiglio partecipata;
  • sulla valutazione, ai fini della punibilità, della particolare tenuità del fatto;
  • sulla messa alla prova dell’imputato;
  • sulle ipotesi di pene sostitutive a quelle detentive;
  • sul tema della giustizia riparativa e sulla disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni;
  • sulle pene minori alternative al carcere;
  • sulla prescrizione dei reati.
  • sul cd. diritto all’oblio, ancora a tutela delle persone già indagate e già imputate e poi assolte: viene prescritto che i nomi di queste, unitamente alle notizie sui procedimenti penali instaurati vengano cancellati dal web mediante provvedimento detto di “deindicizzazione”.

Non è stato trascurato l’importante aspetto della etica delle condotte di quanti agiscono e operano nel processo penale: lo specifico riferimento è ai rapporti tra processo e mezzi della comunicazione (D.Lgs. 188/21).

Naturalmente, non può essere questa la sede per commentare tutti gli aspetti presi in considerazione nella riforma. Sembra però significativo, sul piano dell’interesse mediatico e delle garanzie per le parti processuali, soffermarsi su due degli argomenti innovati: quello della prescrizione dei reati e quello dei rapporti tra i soggetti del processo penale e i mezzi di informazione.

Quanto alla prescrizione, sono state apportate notevoli modifiche alle precedenti disposizioni della Legge 9.1.2019 n. 3 (la cd. riforma Bonafede), ma per fortuna ne è stata mantenuta la impostazione più significativa.

La opinione di chi scrive è che poteva accadere anche di peggio, essendovi il rischio di tornare a un passato alimentato dalle resistenze e alle obbiezioni, a volte feroci, delle correnti di pensiero, politico, mediatico e dottrinale, agguerrite per il mantenimento o per il rafforzamento di questa causa estintiva di reato.

Conviene insistere su questo punto. Già in altre sedi si è ritenuto di porre l’accento sul fatto che un codice penale degno di rispetto verso le parti processuali e verso la collettività non può tollerare che il decorrere del tempo impedisca di amministrare giustizia in un numero davvero preoccupante di processi, in guisa tale che la società e l’individuo possano essere penalmente tutelati a volte si e a volte no. Non possono che essere definiti come aberranti i casi clamorosi di soggetti condannati in primo grado, o finanche in secondo grado, e poi prosciolti, anzi beneficati, per il sopraggiungere di una prescrizione, poi illegittimamente millantata per assoluzione nel merito!

È poi singolare come il detto fenomeno si verifichi specialmente per reati assai gravi come quelli in danno della pubblica amministrazione quali concussione o corruzione, ecc., spesso frutto di pratiche criminose occulte, prolungate nel tempo; tali, per cui le indagini non possano che iniziare con ritardo perché, con ritardo, le tali pratiche vengano alla luce e scoperte; e questo, in un sistema prescrittivo in cui i termini iniziano invece a decorrere sino dal giorno della consumazione dei reati.

Né sono meno rilevanti le “modalità” con cui spesso i ritardi sono conseguiti proprio allo scopo di far maturare i tempi della prescrizione: in realtà le tali “modalità” si risolvono, o possono risolversi, nell’abuso del processo, questo inteso quale abuso di strumenti difensivi specificamente diretti a perdere tempo, o, come è detto in una sentenza di legittimità nella “reiterazione tendenzialmente infinita di attività processuali…” (Cass. S.U. 29.9.2011 n. 155).

Ebbene, il nuovo art. 161 bis del cpp. stabilisce che: “Il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. Nondimeno nel caso di annullamento che comporti la regressione al primo grado, la prescrizione riprende il suo corso…”.

È da sottolineare che sul piano dogmatico la disposizione risulta più correttamente espressa rispetto alla precedente formulazione contenuta nell’Art. 1 della L. 9 gennaio 2019, cit., secondo cui “Il corso della prescrizione rimane ‘sospeso’ dalla pronuncia della sentenza di primo grado e del decreto di condanna fino alla data di esecuzione della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”.

Non più un giudizio ‘definitivamente sospeso’, ma più esattamente una prescrizione il cui corso si blocca, anzi “cessa” con la pronuncia della sentenza di primo grado; salvo poi a ‘riprendere il suo corso’ nei casi di cui ora si dirà.

Nella realtà, anche in dottrina era stato osservato che il “blocco definitivo” del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado non poteva dar luogo alla “sospensione” del corso, nozione concettualmente indicativa di un arresto precario del tempo di prescrizione poi destinato a riprendere il suo corso.

Le tali giuste perplessità sono state recepite e fatte proprie dal nuovo legislatore che, nel già citato Art. 161 bis, parla di “definitiva” cessazione del corso della prescrizione al momento della pronuncia della sentenza di primo grado.

Non è di poco conto rilevare come quest’ ultima riforma – come d’altra parte quella precedente – ha voluto che la cessazione della prescrizione venga riferita non solo alle sentenze di condanna ma anche a quelle di assoluzione; ciò, a differenza della cd. riforma Orlando dell’anno 2017, invece limitata alle sentenze di condanna.

Per altro verso si è inteso decisamente limitare al primo grado gli effetti della cessazione del corso prescrizionale. Di conseguenza, è stata introdotta una causa di “improcedibilità” per i successivi gradi di giudizio stabilendosi, tra l’altro, con l’Art. 344 bis, che:

“1. La mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale.

“2. La mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di un anno costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”.

Inoltre la stessa norma prevede la possibilità di proroga – per la metà – dei predetti termini quando “…il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o per la complessità delle questioni di fatto o di diritto”.

Stesse proroghe sono infine previste per i più gravi reati di terrorismo, per reati associativi, spaccio di stupefacenti, violenze sessuali aggravate nelle forme di cui agli Artt. 609 ter, quater, octies.

Sarà infine lo stesso giudice che procede a decidere la proroga con ordinanza motivata, a sua volta ricorribile in Cassazione.

Ancora innovazioni previste dall’Art. 161 bis, sono le seguenti:

  1. nella ipotesi di annullamento di una sentenza e di regressione alla fase precedente, il corso iniziale della prescrizione riprenderà il suo corso dal momento della pronuncia di annullamento; in altre parole, ricomincerà a decorrere tenendosi presente e sommandosi il tempo già inizialmente consumatosi;
  2. il decreto penale di condanna – a differenza di quanto prevedeva la cd. riforma Bonafede – non determinerà più la cessazione della prescrizione: soltanto una sentenza potrà produrre simile effetto.

Quanto ai rapporti tra processo, soggetti del processo e mezzi di comunicazione, deve anzitutto sottolinearsi che il Decreto Lgs. n. 188 dell’8 novembre 2021 ha dato una disciplina decisa, ineccepibile sul piano costituzionale, aderente alle esigenze del processo penale.

Il punto di partenza – a tacere da direttive, circolari o indirizzi precedenti, tutti capaci di provocare polemiche, finanche diatribe a volte interessate e accese – è stato certamente l’obbligo di dare attuazione alla Direttiva n 343 in data 9 marzo 2016 del Parlamento e del Consiglio Europeo sul tema del rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza: una esigenza, questa, apparsa trascurata dai critici verso il decreto.

Sui profili di fondo, e per essere già in linea con i contenuti della Direttiva UE, si era già avuta, nel 2018, una risoluzione del Consiglio Superiore della Magistratura, definita come “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”.

La effettiva prospettiva era stata quella di “orientare” i dirigenti degli uffici nella comunicazione verso l’esterno, proiettata verso la semplificazione e la facile comprensione dei fatti, affinché rivestissero i caratteri della obbiettività, della imparzialità e della misura; connotati questi diretti a rafforzare il rispetto del principio di presunzione di innocenza o di non colpevolezza, anche attribuendo ai procuratori della repubblica l’onere di stabilire le modalità di attuazione del principio.

Veniva così raccomandato di intrattenere rapporti paritari con i mezzi di informazione avendosi cura di evitare i dannosi – ahimè non rari – canali privilegiati, mantenendo una ferma obbiettività espressiva; astenendosi, nella compilazione degli atti (e in genere nei rapporti esterni) da commenti personali o apprezzamenti sulle indagini o da convinzioni personali.

Infine, con Decreto Lgs. 8 novembre 2021 n. 188, il legislatore nazionale ha emanato compiute disposizioni sul nostro argomento al fine dell’adeguamento – dopo cinque anni – alla Direttiva UE citata.

In buona sintesi, il D.Lgs. 188/2021, dispone che:

  1. le “pubbliche autorità” non devono indicare come colpevole chi non ancora è stato dichiarato tale in una sentenza o decreto penale di condanna divenuti definitivi;
  2. nel caso di inosservanza dell’obbligo di cui sopra, la “pubblica autorità” dovrà procedere alla rettifica immediatamente, o nelle 48 ore, dandone pubblica notizia. La inosservanza di tale obbligo legittimerà l’interessato ad adire il tribunale che deciderà con le forme dell’Art. 700 c.p.c.;
  3. le informazioni sui procedimenti penali in corso sono consentite: a) se sono necessarie per le indagini; b) se vi concorrono motivi di pubblico interesse; c) se siano rispettate le regole di cui ai punti 1 e 2;
  4. gli ufficiali di polizia giudiziaria possono dare informazioni sugli atti di indagine, nel rispetto dei punti precedenti, mediante comunicati stampa o anche conferenze stampa, autorizzati dal procuratore della repubblica con decreto motivato da pubblico interesse.

È inteso che tali regole dovranno essere osservate dagli stessi procuratori della repubblica e dai magistrati degli uffici giudiziari.

Ma quale è la causa di tutto questo incomodo di direttive e di leggi europee e nazionali sul tema della comunicazione? Il fatto è che da troppo tempo si è fatto pessimo uso dell’Art. 21 della Costituzione sulla libertà di espressione.

E non solo: non può, anzi non “deve”, sottacersi l’intollerabile elusione o la violazione del principio di non colpevolezza invece tutelato dall’Art. 27 Cost. Ebbene non si vede come tutto questo possa essere stato consentito o legittimato.

Le ragioni del consenso di chi scrive alla nuova normativa è coerente con quanto sempre manifestato nell’esercizio delle funzioni già svolte: è costituzionalmente tutelato il diritto-dovere della informazione e il correlato diritto alla informazione, ma quest’ultima deve essere aderente ai fatti e alle verità che questi manifestano. Non lo scandalismo, non la rincorsa verso gli scoop da una parte; non il protagonismo, non la cosiddetta “visibilità”, da ogni parte provenga, ma soltanto la corretta comunicazione di fatti aventi interesse sociale o pubblico.

È da sempre, al contrario, che si criticano leggi o direttive o circolari definite “bavagli” offensivi della Costituzione. È grave che non dissimili affermazioni provengano, oltre da chi esercita la professione di giornalismo, da intellettuali, o avvocati o anche “pubbliche autorità” (così si esprime il citato Decreto Lgs. 188), taluni forse inconsapevoli dell’esigenza di riserbo, di misura e di umiltà nella esplicazione di funzioni dalle quali può dipendere la dignità dei cittadini.

Il vero è che, come sempre accade, dietro a certe inaccettabili posizioni liberiste si possono a volte celare non irrilevanti interessi egoistici.

Certo, la cronaca giudiziaria deve pure interessare il medio lettore, spesso anche colpirlo con notizie colorite o con prosa suggestiva, ma tutto questo non deve trasmodare nella notizia non veritiera, priva di aderenza con quanto accaduto, soprattutto ingiustamente lesiva della dignità della persona.

Analoghi interessi egoistici, personali e professionali, possono celarsi nelle critiche provenienti da avvocati (la fama di uno studio professionale può essere positivamente accresciuta da interventi e pubbliche prese di posizione o da compartecipazioni nei fatti oggetto di clamore mediatico). Né sono rarissime le condotte di taluni – per fortuna pochissimi – magistrati o funzionari pubblici, come si diceva, còlti dal desiderio della “visibilità”.

Né infine è utopistico ipotizzare – in alcune occasioni – rapporti amicali tra le categorie di soggetti sopra indicati nonché tra queste e soggetti politici: così come deludenti cronache, anche recenti, hanno dimostrato.

Insomma malvezzi e sostanziali ingiustizie. Pratiche capaci di produrre lesioni – queste sì – a diritti o interessi legittimi degni di massimo rispetto; primi fra tutti quello della presunzione di innocenza e della dignità della persona (o, come molti anni fa, affermò brillantemente il Prof. Carnelutti, “perché ognuno ha diritto al segreto sul proprio disonore”).

Sia consentito di definire come indecorosi gli spettacoli di soggetti, esibiti in ceppi alla gogna mediatica, disperatamente attenti a nascondere il proprio volto alla pubblica curiosità.

Malvezzi da risparmiare anche ai condannati. Intollerabili e illeciti quando bersaglio siano persone soltanto soggette a indagine e invece lasciate apparire ai cittadini come sicuri colpevoli! Esiste, insomma, una sproporzione vistosa e inaccettabile tra diritto di informare e diritto al rispetto della persona.

Nel bilanciamento e nella commisurazione tra diritto-dovere di informazione e dovere al rispetto della presunzione di innocenza e della dignità della persona, certo “non deve” soccombere quest’ultimo!

Ma torniamo ancora da dove si è partiti: sulle “modalità” del compimento degli atti di indagini; sulla liceità e sulla misura della informazione proprio nel corso dei tempi in cui tali atti si stanno compiendo.

È nell’ordine naturale delle cose, che è questa la fase di maggiore interesse mediatico per il giornalismo: arrivare per primi e per primi pubblicare le notizie più recenti e interessanti è ineccepibile ambizione di un giornale. Ebbene è in questa fase che può verificarsi il più severo vulnus al segreto di indagine, e anche il più grave danno all’individuo sottoposto a indagine.

È stata allora evidente la necessità di intervento del legislatore proprio in questa fase mediante le regole di condotta prima accennate.

Tuttavia, nemmeno in tale delicata fase tutto è spietatamente segreto. Esistono atti da rendere necessariamente palesi, come una ispezione di luoghi, o una perquisizione, o un sequestro, un arresto o un fermo: non essendo segreti, tali atti devono essere notificati ai soggetti a cui sono diretti; in genere alle parti processuali.

Ma poiché anche questi atti si risolvono nel rendere pubblicamente notorio che talune persone sono assoggettate ad indagine – una evenienza in sé afflittiva – si impone il dovere, da parte dei procuratori e delle forze di polizia, di essere corretti ed essenziali proprio nella composizione di simili atti: senza sovrabbondare nella terminologia, insomma senza “gonfiare” gli atti con considerazioni personali o commenti inutili o gratuiti; una evenienza, ahimé, non rarissima e certo da ripudiare; e sulla quale pure si impone il dovere di vigilanza dei capi degli uffici. (specialmente di procura e del gip!).

D’altra parte, considerazioni eccessive e commenti lesivi della dignità delle persone indagate sono patrimonio negativo di più di una categoria di persone. Vi sono in particolare i giornalisti, quando si dànno a comporre articoli e scritti volutamente sovrabbondanti, a volte lontani dal vero fino ad essere fuorvianti per i lettori. Un malcostume, per fortuna, lontano dalle prassi espositive della maggioranza dei giornalisti coscienti della primaria importanza della funzione svolta.

In altra sede era stato espresso l’auspicio che nelle sedi opportune i cronisti giudiziari venissero sollecitati a una più adeguata preparazione tecnica, nonché all’osservanza delle regole previste nel codice deontologico.

D’altra parte, non dissimili malvezzi possono essere presenti – come si diceva – negli interventi di soggetti politici e di avvocati, a ciò sospinti da loro pressanti interessi egoistici, o di carriera professionale o di politica.

A fronte di questi inconvenienti, al fine di porre un freno alla prassi di molti giornalisti di procurarsi “veline” e “pizzini” da fonti non ufficiali, vi sono state alcune proposte a che gli atti di indagine non coperti da segreto siano dati proprio in copia ai giornalisti interessati.

La opinione non è scandalosa. Ma non appare prudente: specialmente nel corso dell’iter investigativo dei processi più delicati e complessi. In questi, occorre tenere conto della molteplicità degli interessi, anche di terzi, spesso ancora ignoti. Soggetti e interessi che dapprima sono celati e poi si evidenziano nel corso e a causa di svolgimento di indagini capaci di avere ulteriori sviluppi possibili e non ancora emersi.

Il fatto da tenere presente è che, una volta che si è costituito un diritto o una facoltà, poi diventerebbe assai più difficile negarne l’esercizio.

È da ritenere, perciò, più aderente alla realtà rimettere ogni decisione alle prudenti scelte dei procuratori della Repubblica, i quali potrebbero autorizzare la consegna di stralci di documenti o di misurate e obbiettive informazioni da consegnare al giornalista con atto di ricezione da potere tenere nei fascicoli processuali.

Siano consentite, per concludere, solo poche osservazioni:

  1. la produzione delle ultime riforme ha toccato punti di notevole interesse e sarà utile. Ha mantenuto la impostazione dell’attuale processo penale, ma certo non poteva fare un “nuovo” processo, anche a causa delle esigenze di celerità di cui si diceva all’inizio;
  2. il processo penale è un processo di grande complessità. E rimane tale anche dopo le riforme. Proprio a causa della sua complessità, l’efficienza di esso poggia su “due presupposti” inderogabili e da realizzare con immediatezza: a) la completa informatizzazione di ogni settore: tra le altre cose, il tempo del passaggio di carte, di migliaia di atti o fascicoli da ufficio a uffici diversi e il conseguente ritorno indietro deve essere soltanto un ricordo – non un retaggio! – del passato. È difficile immaginare come sia vicino all’impossibile il trasmettere fascicoli interi più volte, dal PM al GIP e poi da questo al PM; dal PM al Tribunale della Libertà e poi alle Corti di Appello, e poi alla Corte di Cassazione, ecc. E non si sta parlando soltanto di fascicoli di poche pagine, ma a volte di carte e faldoni che riempiono intere stanze! L’informatizzazione, insomma, è una “condizione sine qua non” ai fini della efficienza di ogni riforma; b) la completezza di tutti i settori di un personale amministrativo addestrato, nonché dei magistrati.

Sembra inutile dilungarsi su ciò che appare essere evidente.

Salvatore Vecchione

già Procuratore Capo della Repubblica di Roma e Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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