La riforma Cartabia
per una nuova cultura liberale e garantista

Cambiare la Giustizia, Cambiare il Paese, questo era il titolo evocativo dell’ultimo congresso dei penalisti italiani tenuto a Roma nel settembre 2021. In un momento di emergenza sanitaria ancora in atto, l’avvocatura penalista si rivolgeva già al futuro, a una nuova stagione della giustizia e delle garanzie dei cittadini sottoposti al processo. Da quell’assise così partecipata – anche per il desiderio umano di riprendere i contatti interrotti all’inizio della pandemia – sono state lanciate proposte tecniche e soprattutto culturali con l’obiettivo di seppellire definitivamente il populismo giudiziario dilagante negli ultimi anni, espressione di una politica ispirata solo dalla cultura giustizialista, che aveva partorito in rapida successione la legge spazza corrotti, la legge sulla legittima difesa e infine il “capolavoro” della riforma Bonafede sulla prescrizione.

E come se non bastasse, durante la pandemia non sono mancati attacchi della politica alle garanzie difensive: uno su tutti il così detto processo da remoto, che escludeva la presenza in udienza degli imputati e la partecipazione delle parti attraverso un monitor. O ancora più dirompente la previsione delle camere di consiglio da remoto, per dirla in maniera chiara: i giudici dalle proprie abitazioni si potevano riunire in collegio per emettere una sentenza. In sostanza dietro l’emergenza sanitaria si nascondeva il progetto di dematerializzare il processo penale. Ancora sono in vigore alcune norme emergenziali, ma con il limite temporale al 31 dicembre 2022. È già ingiustificato il disallineamento rispetto al 31 marzo 2022 data prevista ad oggi di cessazione dello stato di emergenza sanitario, ma certamente è necessario ritornare alla normalità anche per quanto attiene alla giustizia penale, ripristinando tutti i diritti e le garanzie delle persone coinvolte che sono sanciti nella Costituzione e specificamente nell’articolo 111, dedicato al così detto “giusto processo”.

Ai nastri di partenza ora c’è la riforma “Cartabia” della giustizia penale, che è al centro di un forte dibattito politico e che potrà essere effettivamente realizzata a condizione di avere come premessa il riconoscimento di un nuovo clima culturale liberale e garantista. Altrimenti si finirà con un ennesimo fallimento a discapito delle persone coinvolte nei processi, ma anche a discapito della società e dell’etica pubblica. Sulla riforma dobbiamo riflettere con un doppio metodo di analisi ma con altrettanta fermezza sui principi ispiratori.

Se alcuni istituti introdotti e in discussione suscitano perplessità di natura tecnico giuridica, che non va trascurata e che possono essere emendati, non possiamo però prescindere da una analisi che tenga conto della situazione politica esistente oggi. 

Oggi constatiamo una prospettiva politica diversa, una inversione di tendenza che ha portato il Parlamento (con al governo la stessa forza politica che ha approvato la norma Bonafede) a ritornare sui suoi passi e all’abrogazione della riforma sulla prescrizione che determinava il fine processo mai. Da questa considerazione dobbiamo prendere le mosse per immaginare alcune delle questioni più importanti su cui intervenire.

Sotto gli occhi di tutti c’è una esigenza improcrastinabile: una riforma concreta e reale dell’ordinamento giudiziario. Serve una riforma che dia credibilità al sistema e ai cittadini che oggi diffidano di una tra le più importanti funzioni di uno stato di diritto.

Negli ultimi tempi dal caso Palamara in poi abbiamo vissuto situazioni profondamente allarmanti che impongono – come ha severamente ammonito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – una rigenerazione etica della magistratura.

La riforma dell’ordinamento giudiziario passa necessariamente attraverso la riforma del CSM e quindi delle modalità di nomina e di funzionamento dell’organo di autogoverno della magistratura per evitare che una nobile funzione possa essere trasformata in un potere. La credibilità della giustizia fornisce un parametro fondamentale di civiltà e di sviluppo di un Paese democratico.

Non esiste una vera democrazia quando il cittadino non ha fiducia nella magistratura. E noi avvocati siamo i primi testimoni di questo deleterio clima culturale.

Abbiamo sul tavolo la proposta di legge costituzionale per la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri depositata grazie alla raccolta di 70 mila firme da parte dei penalisti di tutta Italia, che rappresenta la più importante sfida per una riforma definitiva del nostro sistema. La separazione è la precondizione necessaria per assicurare l’indipendenza e l’imparzialità del giudice penale; senza questa il rischio della sua subalternità all’accusa è concreto e reale come acutamente osservato da tanti accademici che hanno condensato queste riflessioni nel “manifesto del diritto penale liberale” diffuso dai penalisti italiani. Il processo penale muore senza un giudice imparziale, vive con un giudice equidistante e indipendente dalle parti come certificato in tante decisioni giudiziarie non ultima la sentenza sul noto processo “trattativa” di qualche mese fa.

Dobbiamo però pensare anche a una organizzazione giudiziaria efficiente nel rispetto di una proporzionalità di dimensioni che fino ad oggi è stata sottovalutata. Le condizioni degli uffici giudiziari scontano una grave arretratezza di dotazioni e strutture e oggi soprattutto nelle realtà territoriali più grandi il numero dei procedimenti pendenti genera arretrati e ritardi nelle trattazioni in spregio al principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

La pandemia ha determinato una accelerazione informatica dell’organizzazione del processo, ma è essenziale che questa diventi un’opportunità di sviluppo reale e non si trasformi in una inutile burocratizzazione tecnologica per mancanza di risorse o di competenza.

Altro tema – infine – su cui tenere accesi i riflettori è la fase dell’esecuzione penale e sull’ordinamento penitenziario. 

Dopo il fallimento degli stati generali dell’esecuzione penale, è il momento di rimettere mano e lavorare per una riforma innovativa e nel rispetto dei diritti fondamentali dei condannati.

Il livello di sviluppo di una società si misura sulla condizione degli ultimi, di coloro che vivono nella situazione più difficile.

Noi avvocati penalisti siamo tra i testimoni più diretti delle condizioni dei detenuti negli istituti penitenziari ed è a loro che abbiamo rivolto il pensiero in occasione della consueta inaugurazione di questo nuovo anno giudiziario.

C’è un grido di sofferenza che proviene da donne e uomini che, già privati della libertà personale, vivono oggi una condizione inumana e degradante a causa del sovraffollamento carcerario, del deficit di personale amministrativo, di polizia penitenziaria e di magistrati di sorveglianza. In queste condizioni è impedito il perseguimento dello scopo della pena che, ricordiamo sempre, è la rieducazione e il reinserimento sociale del condannato.

La situazione si è ancora più aggravata a causa dell’emergenza sanitaria che ha pregiudicato i rapporti dei detenuti con il mondo esterno e prima di tutto con le famiglie e con i difensori.

È aumentato drammaticamente negli ultimi anni il numero dei suicidi in carcere (54 in Italia nel 2021 e 5 già nel 2022) ed è solo di pochi mesi fa la notizia inquietante di una madre che è stata costretta a partorire in una cella del carcere di Rebibbia.

Mancano idonee strutture per garantire la custodia e le cure dei detenuti affetti da malattie fisiche e psichiche e le REMS purtroppo restano solo una soluzione sulla carta a causa del numero di posti troppo esiguo rispetto alle richieste.

Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia quasi un terzo della popolazione carceraria è in attesa di giudizio e un terzo è reclusa per scontare una pena inferiore a cinque anni.

Questo solo dato dovrebbe costituire oggetto di riflessione per la Magistratura: appare evidente che la custodia cautelare in carcere sia divenuta di fatto una sorta di anticipazione della pena, piuttosto che l’extrema ratio disegnata dal legislatore.

La sensibilità culturale e politica del Ministro della Giustizia Marta Cartabia rende maturi i tempi per un intervento non più procrastinabile; è il momento di ripensare alle modalità di esercizio del potere fisico dello Stato sui cittadini, rientrando nel solco tracciato dalla Costituzione.

Serve subito un provvedimento emergenziale che restituisca legalità all’esecuzione penale: ogni ora persa su questo terreno è un danno ingiusto che lo Stato infligge a soggetti di cui dovrebbe avere la cura e la custodia. Amnistia e indulto, che vengono evocati da tempo come possibili rimedi, restano la strada maestra. Ma se le maggioranze politiche non consentissero di percorrerla, si batta almeno la via della liberazione anticipata speciale, magari affidando la decisione alle direzioni delle carceri, come propone il Partito Radicale, da sempre in prima linea per le battaglie a difesa dei diritti dei detenuti.

Il carcere non deve restare una discarica sociale di cui è meglio non parlare, ma deve diventare l’oggetto centrale dell’attenzione collettiva che si plasmi sulla sensibilità e sulla consapevolezza dei principi costituzionali, che ispirano la finalità della pena nel rispetto dell’articolo 27 della carta costituzionale. E solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano, la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata.

Vincenzo Comi

Presidente della Camera Penale di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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