Perplessità sulla
riforma della prescrizione del reato

Il momento che stiamo vivendo è caratterizzato da una molteplicità di eventi che, con la loro manifestazione ed il loro dilagare, hanno accentuato l’esigenza di riforme divenute ormai indifferibili.

Fenomeni criminosi, sempre più gravi, cinicamente indifferenti ad ogni previsione normativa, hanno finito per creare nella società stupore ed addirittura sgomento. Da qui la volontà del Legislatore di porre mano ad interventi diretti a stabilire ordine e piena legittimità ai poteri istituzionali, prendendo anche in esame, con riferimento al diritto penale, gli orientamenti espressi della pubblica opinione in sede politica. Purtroppo però la loro disamina e valutazione non hanno mancato di far emergere forti criticità tra tesi, che per il vero sono sembrate prevalentemente preoccupate di una collocazione politica e più suggerite da personali affermazioni di principio, che non da un accurato e profondo esame della natura giuridica del problema esaminato. Ci si riferisce in sostanza, ma il discorso riveste carattere generale, all’interrogativo scaturito dal permanere, o meno, nel nostro ordinamento giuridico, dell’istituto della prescrizione. L’adozione di un’appagante soluzione, a mio avviso, sembra dover muoversi fondamentalmente da una scelta di fondo tra due valutazioni, che finiscono per caratterizzare tutto il sistema giuridico.

Le tesi che si contrappongono sono l’una connessa alla negazione ed al disconoscimento di effetti estintivi o dirimenti l’accertamento e la punizione dei reati, legati al trascorrere del tempo; l’altra, per contro, affermativa delle indicate conseguenze.

I due orientamenti però propongono riflessioni che, come già detto, non sono state prese in considerazione.

Con riguardo alla prima opinione sui criteri di una scelta di fondo, la negazione della prescrizione si concretizzerebbe, in pratica, nella enfatica affermazione del “fine pena mai”.

Invero è proprio tale definizione a suggerire perplessità e carenza di approfondimenti, configurando, sostanzialmente, uno Stato disinteressato a valutazioni sul trascorrere del tempo e sui conseguenti effetti, nonché sulle ragioni determinatrici il loro verificarsi, spesso pacificamente tollerate e non valutate a fondo. Molte di tali situazioni, infatti, sia nelle richieste avanzate nel corso del procedimento, sia in quelle adottate nei provvedimenti, appaiono strumentali a fini diversi da quelli indicati e non invece realizzatrici di quelle previste ed espresse.

Sembra, dunque, evidente che un tale modo di procedere richiami, con la sua negatività, un processo caratterizzato da lungaggini contrarie ai principi costituzionali.

La tesi prospettata mostra dunque di non tener conto del principio secondo cui la irrogazione di una sanzione non deve rispondere, come unica conseguenza o reazione, ad un comportamento dello Stato orientato prevalentemente ad un atteggiamento che può sembrare sostanzialmente vendicativo della commissione di fatti illeciti, ma invece di una scelta che sappia aggiungere, con la sanzione e la punizione, l’attenzione ad una ricerca di recupero della deviazione criminosa.

Tale impostazione sembra infatti richiamare quella ricorrente invocazione di “certezza della pena” sostanzialmente contraria al dettato costituzionale.

Il principio richiamato postula infatti non un processo essenzialmente diretto ad una punizione, ma ad un “giusto processo” orientato anche all’accertamento della non colpevolezza dell’imputato.

Quanto all’altra tesi, postulatrice della ricorrenza della prescrizione, vi è da rilevare che pur nei suoi confronti possono formularsi obiezioni non trascurabili.

La configurazione di un sistema giuridico, che sostanzialmente difenda dal trascorrere del tempo, sembra dimostrare un’attenzione rivolta non al rispetto di quei richiamati principi ritenuti e scelti come fondamentali per il vivere sociale, diminuendone l’autorevolezza e la scelta democratica.

Il sospetto poi, come già sottolineato, ripropone un facile ricorso a comportamenti o intenti sostanzialmente dilatori, estesi anche a tutte le parti del processo, grave nel rendere possibile il verificarsi di numerose ipotesi criminose configuranti interessi diversi dalla corretta procedura.

In molti processi, infatti, la generale condotta processuale configura la ricerca del trascorrere del tempo, come unico mezzo difensivo.

Il consentire lunghi periodi di inerzia processuale promuove una sostanziale sfiducia nella giustizia e nel suo sistema processuale.

Il richiamo alle perplessità emergenti dalle due tesi formulate, serve dunque a dimostrare che la soluzione non possa premiarne alcuna, dovendosi invece aver riguardo ad una scelta di fondo, la quale esprima chiaramente la vocazione e la configurazione.

La norma dunque miri all’armonizzazione con le altre previsioni, evitando così discrasie e contraddizioni. Scelte che finiscono per evidenziare titubanti ed incerte decisioni, determinando confusione ed errate interpretazioni.

Si pensi, ad esempio, ai casi mediante i quali il nuovo decreto sulla giustizia, cercando di mediare tra le diverse proposte, ha ritenuto di escludere la prescrizione per alcune ipotesi espressamente elencate e rilevanti per la loro gravità. La soluzione adottata, pur esprimendo la lodevole volontà del Legislatore di contemperare il contrasto emergente tra i due orientamenti, solleva tuttavia perplessità di carattere costituzionale.

Innanzitutto l’impostazione adottata finisce per non risolvere la sostanziale disparità di trattamento tra le diverse tipologie di reati, ancorché considerate correttamente di estrema gravità.

Il giusto maggior rigore previsto nelle ipotesi criminose prese in esame, proprio perché diversamente indicato, finisce per richiamare il dettato costituzionale e la chiarezza dei criteri interpretativi.

A ben considerare, dunque, la rilevanza dei problemi non può risolversi in modifiche che non partano dal fondamento e dalla natura giuridica.

Ogni sistema giuridico, infatti, non è costituito semplicemente da una seriazione di norme esprimente ognuna la sua previsione, ma invece da un corpo unico legato a comuni principi regolatori. Tale considerazione esplicitata in tema di prescrizione è egualmente ricorrente pure nelle altre modifiche proposte nel decreto presentato.

Non potrà dunque esser considerata produttiva degli auspicati effetti deflattivi della lunghezza e molteplicità dei processi se, nella generale struttura del sistema processuale, non si sarà provveduto, ad esempio, ad eliminare le incertezze legate al c.d. patteggiamento, legato nella sua definizione, ad un accordo i cui termini appaiono incerti quanto al valore delle decisioni adottate ed alle conseguenti iniziative processuali.

La più volte invocata necessità di alleggerimento della molteplicità dei processi dovrà inoltre provvedere a rivisitare il sistema dei controlli attraverso un effettivo ed efficace sistema che, pur garantendo l’indipendenza dell’operato dei vari soggetti, riconosca e solleciti la conseguente vigilanza da chi ne è preposto in nome di una assunzione di responsabilità.

Il ritardo e le motivazioni dei provvedimenti, legati spesso a mere formule di stile, non possono essere eliminate con modifiche limitate, non orientate ad una rivisitazione di tutto l’istituto.

Il sistema processuale, alla luce di tali valutazioni, non dovrà trascurare anche una decisa e fondamentale regolamentazione dei rapporti tra magistratura e potere politico, riconsiderandone la portata, evitando il pericolo di una reciproca interferenza, spesso scaduta a livello di illecito.

Luigi Ciampoli

Magistrato, docente di procedura penale Università di Urbino, già procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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