Un viandante che voglia, figuratamente, narrare il cammino lungo il sentiero della Giustizia, legislatura 2018, incontra varie trappole e mistificazioni. Si impone una ricostruzione, perché la memoria storica (in questo caso brevissima) si confonde con l’ultima agenzia battuta sul tema delle ultime 12 ore.
Il ministro Bonafede, lo ricordo in audizione in Commissione giustizia al Senato, aveva una stella polare: finita l’“era Berlusconi”, finalmente la giustizia non sarebbe più stata un tema divisivo, con le due armate in campo, magistrati vs politici. La nemesi della politica non solo ha smentito questo assunto, ma ha visto l’ex guardasigilli costretto a non riferire in aula sullo Stato della Giustizia italiana, provocando così la fine del Conte II.
Si sono scritte centinaia di pagine sulle giravolte dei pentastellati, ma poche sugli errori di prospettiva: aver pensato che la Giustizia non fosse riformabile a causa della presenza del Presidente di Forza Italia è il più macroscopico di questi.
In realtà è accaduto l’esatto contrario: quando la magistratura “politicizzata” non ha avuto più un nemico dalle spalle larghissime come Berlusconi che la coalizzasse, è semplicemente implosa. La deflagrazione ha trascinato dietro di sé l’ordinamento giudiziario, l’immagine della magistratura stessa e ha fatto precipitare la fiducia dei cittadini, con autorevolezza disconosciuta dal 55%, percentuale così in basso mai avuta.
Le narrazioni degli azzurri sulla persecuzione subita per anni, impallidiscono dinanzi alla realtà che si è svelata, vuoi grazie al Libro Sallusti/Palamara, vuoi grazie agli spazi televisivi nei talk show, vuoi per le continue notizie di magistrati implicati in attività non trasparenti. La vicenda della sentenza di condanna che ha portato la estromissione di Berlusconi dal Senato ha rappresentato sicuramente l’apice.
Non a caso il capogruppo di Forza Italia in Commissione Giustizia alla Camera, On. Pierantonio Zanettin, rimarca sempre l’esigenza del sorteggio per la scelta dei componenti del CSM e sono in Parlamento le proposte di una Commissione di Inchiesta sui rapporti tra magistratura e politica, ovviamente osteggiate dalla vecchia maggioranza giallo rossa.
La teorizzazione grillina, in base alla quale non dimentichiamolo, c’è stato il voto favorevole di un italiano su tre, non si schiantata solo sulla teoria di una “Forza Italia mafiosa e corrotta”, che impediva un dialogo sereno fra i poteri dello Stato.
Una seconda, gravissima e irreparabile caduta è avvenuta sul terreno della lotta alla corruzione. Qualcuno ha visto gli effetti della legge “spazza corrotti”? Quella inneggiata con le ramazze? Qualcuno ha letto dati in base ai quali l’Italia è divenuta un Paese in cima a qualche classifica. Certamente no, perché era una legge con un’altra finalità: vedere in carcere, il più a lungo possibile, i “colletti bianchi” quelli che, secondo la ideologia pentastellata, sono ricchi, pagano gli avvocati ed escono. Invidia sociale da quattro soldi, che nulla a che fare con la prevenzione e la lotta alla corruzione.
Ho un ricordo vivido e angoscioso della notta passata in Commissione Giustizia, nel periodo del Governo giallo verde, per l’approccio dell’allora maggioranza. Non prese in esame emendamenti e suggerimenti, alzò il muro della guerra alla impunibilità (di chi poi non è dato sapere) e alla fine? Risultati zero!
Sul tema il Presidente del Consiglio è intervenuto con una parola: trasparenza. La pubblicazione di dati, cronoprogrammi, nomi, appalti, servizi, etc. consente un controllo pubblico e collettivo, crea una cultura generale nel Paese, dei cittadini. Questa strada è sicuramente più lineare.
Un altro clamoroso capitombolo dei cinque stelle si chiama prescrizione. Venne introdotta nello “spazza giustizia” con un emendamento. Bonafede giurò che avrebbe aumentato il numero dei magistrati in modo supersonico, tanto da rendere inutile la norma. Fu incurante del muro alzato dai penalisti, del processo senza fine, del destino dell’imputato. L’azione sull’aumento del numero dei magistrati è rimasta senza esito. Non è stato risolto neppure il problema dei magistrati onorari, regalando all’attuale Governo un’inevitabile procedura di infrazione da parte dell’Europa.
L’ultima caduta rovinosa è stata la vicenda delle rivolte nelle carceri e la cosiddetta scarcerazione dei mafiosi. Al tempo la Lega si buttò a capofitto nella polemica, era troppo fresca la ferita del Conte II. Solo oggi si sta comprendendo che il carcere non è un posto dove entri stile torre di Londra. Draghi e Cartabia sono stati estremamente espliciti a riguardo.
Così, di buca in buca, di strapiombo in strapiombo, il nostro viandante si è trovato tra due muri: giustizialismo e garantismo. Due muri figli delle esemplificazioni eccessive, della traduzione mediatica delle bandierine. Due muri che confondono le idee, perché la storia dal 2018 dimostra qualcosa di più. Dimostra che le teorizzazioni grilline, figlie di un’epoca, sono miseramente fallite e tramontate.
Come esce il viandante dalla strettoia? Capendo cosa significhi, nel Governo Draghi, la riforma della giustizia e partendo, inevitabilmente, dal Recovery. Sappiamo bene che si parla di migliaia di pagine e che senza un minimo di approfondimento è difficile comprendere dove si diriga il sentiero della giustizia.
La riforma del sistema giudiziario, incentrata sull’obiettivo della riduzione del tempo del giudizio, è una riforma di contesto. Le tempistiche sono ben definite, così come l’obbiettivo: un abbattimento dell’arretrato civile del 65% in primo grado e del 55% in appello, entro la fine del 2024; un abbattimento dell’arretrato civile del 90%, in tutti i gradi di giudizio, entro la metà del 2026; un abbattimento dell’arretrato della giustizia amministrativa del 70% in tutti i gradi di giudizio, entro la metà del 2026; una riduzione del 40% della durata dei procedimenti civili, entro la metà del 2026; una riduzione del 25% della durata dei procedimenti penali, entro la metà 2016.
Le risorse sono garantite: ad esempio uno stanziamento di 2.340 milioni di euro per il potenziamento dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e l’obbiettivo di “sostenere gli interventi di riforma della giustizia attraverso investimenti nella digitalizzazione e nella gestione del carico pregresso di cause civili e penali”.
In questa logica sono anche previste le 16.500 assunzioni di neo laureati al fine di coadiuvare il Giudice.
Quanto ai tempi di attuazione, le leggi di delega devono essere approvate dal Parlamento entro il 2021, per emanare i decreti delegati entro il 2022.
Oggi all’esame del Parlamento ci sono le leggi delega per il processo penale e civile: le linee di fondo sono state tracciate sempre nel Recovery sotto la colonna “obbiettivo dell’intervento”. Non è, intendiamoci, una imposizione europea o del Governo. Il Parlamento, infatti, ha in via preventiva approvato delle risoluzioni (Commissione per Commissione, quindi materia per materia) e ha successivamente approvato il testo inviato alla Commissione.
Per quanto attiene il penale, la normativa dovrà: semplificare e razionalizzare il sistema degli atti processuali e delle notificazioni; intervenire sulla disciplina della fase delle indagini e dell’udienza preliminare; ampliare la possibilità di ricorso ai riti alternativi e l’incentivazione dei benefici ad essi connessi; predisporre regimi volti a garantire maggiore selettività nell’esercizio dell’azione penale e nell’accesso al dibattimento, tanto in primo grado quanto in fase di gravame; migliorare l’accesso, snellire le forme e ridurre i tempi di durata del giudizio di appello; definire i termini di durata dei processi; intervenire sulla procedibilità dei reati, sulla possibilità di estinguere talune tipologie di reato mediante condotte riparatorie a tutela delle vittime, sull’ampliamento dell’applicazione dell’istituto della particolare tenuità del fatto. Infine, è chiaramente scritto che la prescrizione del reato non dovrebbe più rappresentare l’unico rimedio di cui si munisce l’ordinamento nel caso in cui i tempi del processo si protraggano irragionevolmente.
Per il processo civile, che fa meno clamore mediatico, ma in realtà sarebbe il più rilevante, si prevedono: interventi per un potenziamento degli strumenti alternativi al processo; un intervento selettivo volto a concentrare maggiormente, per quanto possibile, le attività tipiche della fase preparatoria ed introduttiva; sopprimere le udienze potenzialmente superflue e ridurre i casi nei quali il tribunale è chiamato a giudicare in composizione collegiale; ridefinire meglio la fase decisoria con riferimento a tutti i gradi di giudizio; sono previsti interventi anche per il processo esecutivo, il contenzioso della famiglia, il Codice di crisi della impresa, etc.
Le forze politiche che appoggiano il Governo Draghi hanno attivamente partecipato sia in sede di Parlamento che di Esecutivo, alla composizione degli obbiettivi e degli strumenti. Sono consapevoli che la Commissione Europea considera prioritaria la riforma della giustizia, prodromica per l’erogazione dei prestiti. Prestiti chiesti, si badi bene, sulla base degli scopi sopra sinteticamente esposti.
Ma la domanda è semplice: una qualsiasi delle forze politiche che abbiano fatto questo sentiero, può fare della giustizia un campo di battaglia? Per cosa? Per contrapposizioni che hanno già avuto una chiara risposta dagli eventi? Per proseguire in un’amministrazione dei processi scandalosamente lunga al punto tale da relegarci sempre in fondo a tutte le classiche? Possiamo dimenticarci che Camera e Senato hanno ampiamente dibattuto in via preventiva sugli interventi necessari? E possiamo dimenticarci che, a fronte dei dubbi espressi dalla Commissione Europea, il Presidente del Consiglio ha “garantito” per il nostro Paese?
Ovviamente la risposta è no. Ci potrà essere qualche aggiustamento, ma è innegabile che l’approdo del nostro viandante è chiaro. Emerge dalle nebbie della ubriacatura del primo anno di legislatura, focalizza i problemi (primo fra tutti i tempi) e individua cronoprogramma, obbiettivi e risultati da raggiungere.
Dovrei concludere con un appello al senso di responsabilità collettivo, ma potrebbe avere il sapore retorico.
Mi appello alla capacità di distinguere i politicanti dai politici, da chi vive sulle 12 ore rispetto a chi ha la statura per guardare oltre i 365 giorni.
Le forze politiche non saranno giudicate dagli elettori per la starnazzata di turno sui social o nel talk show di turno, ma dalla capacità di porre basi solide per un Paese oggi centrale nella politica europea e nella alleanza atlantica.