Ripensare la giustizia penale.
Focus sulla giustizia riparativa

La Commissione Lattanzi, istituita dalla Ministra Cartabia per provvedere a modificare il Codice di procedura penale, ha prodotto un testo di settantasei pagine pubblicato sul sito istituzionale del Ministero.

La pubblicazione della proposta ci pare un fatto importante, perché consente a tutti gli addetti ai lavori e non solo di poter fruire della lettura diretta del testo relativo alle “proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale nonché in materia di prescrizione del reato attraverso emendamenti al disegno di legge A.C 2435 recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti di appello”.

Un percorso quello della riforma del processo penale non più procrastinabile, perché rappresenta l’obiettivo trasversale posto alla base del nostro Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quale condizione, che la Commissione Europea ha posto per l’erogazione dei fondi del programma Next Generation EU.

In queste settimane le pagine dei giornali che si occupano dei temi della giustizia hanno commentato alcuni dei temi “caldi”, che fanno parte della proposta di modifica del codice di procedura penale. L’attenzione ai temi appare in questi giorni lievemente scemata forse per i contenuti troppo propagandistici di alcune dichiarazioni dei leader di partito. Tuttavia, l’imminente dibattito parlamentare riaccenderà sicuramente i riflettori.

Esiste, come abbiamo appena ricordato, una ferma determinazione di questo Governo per fare approvare la legge delega. La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha già indicato il limite temporale: entro la fine di questo anno (è un target indicato nel PNRR).

Pur definendo l’impresa “titanica”, la Ministra afferma che “Nessuno ce la può fare senza il contributo, l’impegno, l’entusiasmo, la disponibilità di tutti, tanto a livello politico che giudiziario, ma dobbiamo farcela”.

La Commissione Lattanzi ha elaborato un testo significativo e diligentemente sintetico. Abbiamo deciso di leggere con voi, lettori di questa rivista, la parte relativa al sistema sanzionatorio penale. Su questo tema la Commissione ha dedicato un intero capitolo, il quarto, dove si introduce anche una disciplina organica della giustizia riparativa, elemento questo che rappresenta la vera novità dell’intero esercizio di proposta di riforma.

Il titolo del quarto paragrafo del testo pubblicato: “Proposte in materia di sistema sanzionatorio penale e giustizia riparativa”, raccoglie in particolare disposizioni relative ad una rivisitazione del sistema delle pene pecuniarie, modifiche al sistema delle sanzioni sostitutive alla pena detentiva e un’articolata declinazione dei contenuti dell’istituto della giustizia riparativa.

Sono questi i temi che scegliamo di trattare in questo articolo, perché più vicini all’ambito professionale di chi scrive.

Le pene pecuniarie, nel nostro sistema (contrariamente a quanto avviene in altri ordinamenti) non sono state mai ritenute un’efficace misura alternativa al carcere e quindi sono state raramente, ma anche mai comminate.

La Commissione Lattanzi ritiene che sia invece necessario articolare una riforma organica della pena pecuniaria “anche attraverso una revisione degli attuali farraginosi meccanismi di esecuzione forzata e di conversione di pene limitative della libertà personale” (Sent. Corte Costituzionale n 15 del 2020).

Nella relazione che accompagna il testo normativo proposto, la Commissione ritiene che nel contesto di una articolata proposta di riforma al sistema sanzionatorio “superare il luogo comune e la cultura del carcere, come unica o comunque irrinunciabile risposta al reato, richiede anche di valorizzare la più tradizionale e risalente delle sue alternative: la pena pecuniaria”.

Al giudice verrebbe consentito di determinare prima il numero delle quote giornaliere cui assoggettare il condannato e poi l’importo di ogni quota (nel codice tedesco le quote sono fissate da un minimo di 1 euro ad un massimo di 30mila euro), tenendo conto delle condizioni economiche e di vita del condannato.

Per contro, l’attuale sistema vigente nel nostro codice appare un privilegio del quale possano avvalersi solo i condannati appartenenti a classi sociali abbienti e non già coloro i quali vivono in condizioni di disagio economico e sociale. Tutto questo in manifesto contrasto con l’art. 3 della nostra Carta costituzionale.

La riforma del 2009, che ha interessato il criterio di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria (art. 135 c.p.), ha reso particolarmente gravosa l’applicazione della misura sostitutiva della pena detentiva con la pena pecuniaria. Attualmente il costo da corrispondere per ogni giorno di pena detentiva sostituita in pena pecuniaria è di 250 euro che, moltiplicati per un mese di pena detentiva, diventano 7.500 euro!

Per meglio sottolineare l’impossibilità, sino ad oggi registrata, di praticare la misura della pena pecuniaria sostitutiva alla pena detentiva, anche la Commissione Lattanzi, nella sua relazione, ricorda il caso di una persona che fu condannata a 45 giorni di detenzione sostituiti con una multa di 11.250 euro per il furto in un supermercato di un genere alimentare il cui valore non superava i 2 euro!

In tema di misure sostitutive alla pena detentiva la legge delega propone di emendare la legge del 24 novembre 1981, n. 689 con particolare riguardo alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi.

A giudizio della Commissione i tempi sono maturi per estendere il concetto di pena detentiva “breve” suscettibile di sostituzione oltre i due anni di pena inflitta.

La previsione di innalzare il limite della pena detentiva sostituibile e di modificare la tipologia delle pene sostitutive abolendone alcune (semidetenzione e libertà controllata perché di fatto raramente applicate) tiene conto delle positive esperienze maturate in altri contesti normativi (misure alternative alla detenzione). I componenti della Commissione affermano con piena consapevolezza che il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato e che anzi “per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità. Se correlate di contenuti sanzionatori positivi, le sanzioni sostitutive possono rivestire il ruolo di vere e proprie pene sostitutive delle pene detentive.”

Queste le ragioni per le quali l’articolo 9 bis della proposta legge delega prevede come sanzioni sostitutive alle pene detentive (e non già alternative alla detenzione): la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, il lavoro di pubblica utilità, la pena pecuniaria.

Sanzioni sostitutive che nella proposta legge delega potrebbero essere applicate nei casi di sentenza di patteggiamento quando la pena detentiva da comminare non sia superiore a quattro anni. Disciplina questa già adottata dal tribunale di sorveglianza entro lo stesso limite di pena (art 656, co. 5, cpp) nel caso in cui il condannato a pena detentiva non superiore a quattro anni può accedere ad una misura alternativa evitando l’ingresso in carcere.

L’avere previsto sanzioni sostitutive alla pena detentiva e non alternative a questa appare un segnale positivo di buon auspicio per avviare l’ormai necessario percorso di modifica dei sentimenti di quanti (troppi) pensano che l’unica risposta che lo Stato deve dare per i fatti reato sia sempre e solo il carcere.

Dovremmo sempre ricordare che non tutti i reati hanno la stessa gravità, non per tutti i reati è necessaria la misura della pena detentiva. È possibile e con maggiore efficacia raggiungere l’obiettivo della prevenzione dalla reiterazione di azioni criminose, proprio senza passare dal carcere attraverso l’applicazione di misure sostitutive che, valutate in relazione all’autore, alla vittima, al contesto, al danno arrecato, possano rispondere meglio al percorso riabilitativo ed evitare la recidiva.

Una riforma che, accanto ai tecnicismi propri dell’elaborazione normativa, non trascura la dimensione umana sulla quale le leggi hanno un diretto impatto.

Non è casuale quindi che il progetto di riforma elaborato dalla Commissione Lattanzi si apra con un primo articolo che indica i principi da declinare in norme attuative per una definizione “della vittima del reato e la legittimazione della costituzione di parte civile”.

E si tratta anche in questo caso di una novità. Nel nostro sistema penale, così ricco di fattispecie criminose di declinazione estremamente dettagliata delle mille fasi dei procedimenti penali, non era ancora stata fornita una definizione giuridica di “vittima”. Definizione che invece viene fornita dal Parlamento europeo e dal Consiglio nella Direttiva 2012/29/UE, con invito rivolto a tutti gli Stati membri ad adottare misure legislative adeguate e coerenti con i principi contenuti nella direttiva stessa.

Nel nostro codice la definizione di vittima la ritroviamo nell’ articolo che definisce la “persona offesa dal reato” generalmente intesa come il soggetto titolare del bene giuridico leso dal fatto reato, incluse le persone giuridiche e non già chiunque subisca un danno quale conseguenza del fatto penalmente rilevante.

Con la previsione normativa proposta si vuole invece modificare il concetto e sottolineare il valore della persona in quanto essere umano.

Il concetto è fortemente definito nella direttiva stessa quando afferma che “le vittime di reato dovrebbero essere riconosciute e trattate in maniera rispettosa, sensibile e professionale, senza discriminazioni di sorta fondate su motivi quali razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione o convinzioni personali, opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, appartenenza a una minoranza nazionale, patrimonio, nascita, disabilità, età, genere, espressione di genere, identità di genere, orientamento sessuale, status in materia di soggiorno o salute”

Su quanto affermato dalla Direttiva giunge una considerazione che associamo alla recente pronuncia della CEDU, che nei giorni scorsi ha emanato una sentenza nella quale condanna la Corte di Appello di Firenze, che nel 2015 aveva assolto sei imputati accusati di uno stupro di gruppo avvenuto nel 2008. La Corte di Strasburgo descrive, nelle quattro pagine di motivazione che quei giudici hanno utilizzato un linguaggio ed argomenti che offendono la vittima (vittimizzazione secondaria), non rispettandone la vita privata e l’integrità personale.

La modifica legislativa proposta dalla Commissione Lattanzi sicuramente muove nella direzione di modificare la sensibilità del giudizio di coloro i quali sono chiamati ad emetterlo utilizzando le necessarie valutazioni sulla condizione della vittima, nella sua interezza fisica, psichica e morale, senza pregiudizi e senza discriminazioni.

Quindi, il testo di riforma si apre con l’indicazione di delega al Parlamento di definire con maggiore chiarezza il concetto giuridico di vittima, le sue prerogative, i diritti ad essa riconosciuti, limitando la legittimazione ad esercitare l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno alla sola vittima (secondo la nuova ampia definizione) ed estendendo le tutele introdotte con la legge in materia di violenza domestica e di genere del 19 luglio 2019, n. 69 anche alle vittime di tentato omicidio e dei delitti in forma tentata.

In coerenza con i principi che attraversano tutto il lavoro della Commissione Lattanzi, il documento si chiude con la declinazione dei contenuti che i decreti legislativi attuativi della legge delega dovrebbero disciplinare in materia di giustizia riparativa. Si tratta infatti di un percorso di riforma, che intende mettere al centro della scena la vittima nella nuova e ampia accezione definita nel testo stesso ed in coerenza con le disposizioni della Direttiva europea citata.

Ma c’è anche l’impegno a modificare progressivamente il concetto di pena, provare a demolire la concezione esclusivamente punitiva e non già riparativa che invece è necessario che abbia per soddisfare concretamente il concetto di ristoro dal danno fisico, psicologico, morale e anche economico che la vittima (nella sua ampia definizione) ha subito. Le ferite provocate da un trauma non si compensano con il denaro, sappiamo bene che in molti casi questo non è sufficiente e non serve a lenire il doloro provocato.

Occorrono strumenti giuridici alternativi, che possano nella loro cornice di tutela e garanzia contribuire a risanare-ricucire lo strappo che il fatto reato ha provocato tra le persone in un determinato contesto. Anche attraverso il dialogo con l’altro, il sostegno a riflettere su quanto avvenuto (subito o commesso), l’ascolto dei propri familiari, amici, della comunità testimone dell’evento, parte essa stessa, danneggiata dall’evento.

Il tema della giustizia riparativa è un tema di complessa attuazione nel nostro sistema penale ma i tempi, anche in questo caso, non sono più rinviabili posto che quella stessa Direttiva europea del 2012, più volte citata e la successiva Raccomandazione del Consiglio d’Europa (CM/REC(2018)8 tracciano la strada e forniscono indicazioni chiare e ne sollecitano l’introduzione nel sistema penale degli Stati membri.

L’istituto della giustizia riparativa nel sistema penale italiano ha avuto ingresso nel codice del procedimento penale minorile con il DPR n. 448 del 1988, prevalentemente attraverso l’istituto della mediazione penale in due fasi del procedimento stesso: quella che possiamo definire pre-processuale che riguarda la fase delle indagini preliminari e la seconda che si può instaurare nella fase processuale. Con l’istituto della sospensione del processo e messa alla prova si è affermato il principio che la risposta al reato possa essere costituita da un progetto piuttosto che da una pena: questa previsione introduce, per la prima volta, la prospettiva di un dialogo tra il giudice, i servizi sociali e il minore per andare a delineare la struttura di quel progetto, il quale avrà finalità riparative e riconciliative nei confronti della persona offesa.

Con la legge n. 67 del 28 aprile 2014 è stata introdotta la sospensione con messa alla prova per gli imputati adulti, che può definirsi il primo caso in cui un reato, non minorile né di competenza del giudice di pace, possa essere affrontato dall’ordinamento penale italiano senza passare attraverso la quantificazione di una pena detentiva. Infatti, mediante tale istituto si raggiunge l’obiettivo di evitare il contatto dell’indagato con l’ambiente penitenziario e, ancora prima, con il sistema processuale e con le stigmatizzazioni che ne derivano.

Per tale motivo la messa alla prova può definirsi a metà strada tra i meccanismi di diversion e di probation anglosassoni.

Per quanto riguarda i contenuti, la messa alla prova consiste in prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, nel risarcimento del danno dallo stesso cagionato. La messa alla prova, inoltre, comporta l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare, tra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale ovvero l’osservanza di determinate prescrizioni anche limitative della libertà di movimento e di frequentazione di determinati luoghi. Presupposto indispensabile per la concessione del beneficio è la prestazione di lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione, non retribuita, a favore della collettività, di durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi e da svolgere presso lo Stato, le regioni, le provincie, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti od organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato

Con l’emanazione del decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 gennaio 2016, in nostro Paese recepiva i contenuti della Direttiva 2012/29 UE. Tale decreto tocca principalmente aspetti legati alla partecipazione della vittima al procedimento e, per quanto riguarda la giustizia riparativa, sono indicate tra le informazioni da fornire alla persona offesa, la possibilità che il procedimento sia definito con remissione di querela, ove possibile, ovvero attraverso la mediazione.

È evidente che tutta questa articolata disamina di norme rintracciate qui e là nel nostro ordinamento penale consentono di comprendere come invece sia necessario disciplinare interamente l’istituto della giustizia riparativa e l’articolo della legge delega intende assolvere tale esigenza.

In primo luogo, per uniformarsi alla Direttiva 2012/29UE, definisce in modo vincolante il paradigma della giustizia riparativa come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore di reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Anche la Raccomandazione del Consiglio d’ Europa CM/Rec(2018)8 definisce che con il termine giustizia “si riferisce a ogni processo che consente alle persone che subiscono pregiudizio a seguito di un reato e a quelle responsabili di tale pregiudizio, se vi acconsentono liberamente, di partecipare attivamente alla risoluzione delle questioni derivanti dall’illecito, attraverso l’aiuto di un soggetto terzo formato e imparziale (da qui in avanti ‘facilitatore’)” (paragrafo 3).

L’articolo inserito nella delega prevede davvero una composita azione normativa, che non si limita ad introdurre le procedure necessarie per giungere “alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato”, ma indica tutte le previsioni di un nuovo assetto organizzativo del sistema che per la gestione di questi procedimenti non può fare più solo riferimento alle sedi dei tribunali, agli istituti penitenziari, ai centri di servizio sociale per esecuzione penale. Sarà necessario, infatti, istituire e disciplinare un’organizzazione dedicata dei servizi di giustizia riparativa con particolare riferimento alla regolamentazione dei centri che saranno incaricati di: erogare servizi di giustizia riparativa e programmare e realizzare la formazione degli operatori che dovranno svolgere tali programmi; assicurare la realizzazione di programmi formativi degli operatori pubblici e privati sulla giustizia riparativa, tenendo conto delle sensibilità e delle esigenze delle vittime del reato; prevedere la possibilità di accesso “ai programmi di giustizia riparativa senza preclusioni in relazione alla gravità dei reati e di recepire gli esiti del ricorso a detti programmi in ogni stato e grado del procedimento di merito, nell’ambito degli istituti previsti dal codice penale, dal codice di procedura penale, dall’ordinamento penitenziario, dall’ordinamento minorile e da leggi speciali che possano essere arricchiti dall’innesto della prospettiva riparativa”.

Tutto questo e anche di più viene illustrato ampiamente nella relazione che accompagna la proposta della legge delega, dove sono elencati i criteri che devono essere adottati per dare forma all’intero complesso di norme che dovranno essere elaborate. I criteri ispiratori ovviamente non si discostano dai principi enunciati dalle disposizioni europee ed a queste viene fatto dettagliato riferimento.

È da quelle fonti che si comprende come i percorsi di giustizia riparativa possano essere di beneficio sia per le vittime, sia per gli autori di reato. In particolare, la Direttiva 2012/29/UE riconosce che «I servizi di giustizia riparativa, fra cui ad esempio la mediazione vittima-autore del reato, il dialogo esteso ai gruppi parentali e i consigli commisurativi, possono essere di grande beneficio per le vittime, ma richiedono garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta, l’intimidazione e le ritorsioni» (46° Considerando). Inoltre, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/REC(2018)8 rileva l’importanza di incoraggiare il senso di responsabilità degli autori dell’illecito e di offrire loro l’opportunità di riconoscere i propri torti, questo anche al fine di favorire il loro reinserimento, consentire la riparazione e la comprensione reciproca e stimolare la determinazione a non commettere nuovamente reati.

Quanto al tipo di programmi, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/Rec(2018)8 afferma che: «La giustizia riparativa prende sovente la forma di un dialogo (diretto o indiretto) tra la vittima e l’autore dell’illecito, e può anche includere, eventualmente, altre persone direttamente o indirettamente toccate da un reato. Ciò può comprendere persone che sostengono le vittime o gli autori dell’illecito, operatori interessati e membri o rappresentanti delle comunità colpite» (paragrafo 4).

Un programma ambizioso e complesso quello proposto dalla legge delega, che appare distante dal comune sentire che l’opinione pubblica dichiara nei confronti dei colpevoli (molte volte nei confronti di chi non è ancora rinviato a giudizio!).

Una grande impresa che vede coinvolti tutti noi, ciascuno per la sua parte di responsabilità, quali cittadini, soggetti attivi e responsabili. Dobbiamo tutti ripensare alla giustizia come una funzione importante per costruire, includere, riparare, rispettare la dignità sia della vittima che dell’autore di reato. Riparare invece di vendicare produce sicurezza e quindi benessere sociale.

A questo proposito non riusciamo a fare a meno di ricordare una storia importante che ci ha consegnato Nelson Mandela, premio Nobel per la pace nel 1993.

All’indomani della sua nomina a presidente della Repubblica del Sud Africa, Mandela era preoccupato di non riuscire a contenere i focolai di violenza e tensione che attraversavano l’intero paese tra la popolazione di colore e i bianchi, questi ultimi responsabili del regime di Apartheid vigente nel paese dal 1948.

Con il decreto Promotion of National Unity and Reconciliation Act (“atto per la promozione dell’unità nazionale e per la riconciliazione”) del 1995, Mandela istituisce la Commissione Verità e Riconciliazione ( Truth and Reconciliation Commission – TRC) con il mandato di raccogliere e registrare le testimonianze di coloro che si erano resi colpevoli di violazioni dei diritti umani durante il regime dell’apartheid, e di coloro che erano stati le vittime di tali violazioni, con la possibilità di concedere l’amnistia ai reo confessi. La Commissione in udienze aperte al pubblico raccoglieva le testimonianze delle vittime e degli autori dei crimini commessi durante il regime di apartheid, sollecitava la richiesta di perdono per le azioni svolte in modo da riconciliare attraverso questi procedimenti realmente le vittime ed i carnefici, gli oppressori e gli oppressi.

La Storia riconosce a quella Commissione un ruolo importante nel processo di transizione del Sudafrica dal segregazionismo ad una nuova organizzazione democratica del paese con pari diritti per i bianchi e per i neri. Al di là delle critiche, che non sono mancate, quella Commissione rappresenta ancora oggi un modello: la prima ma anche la più nota applicazione del concetto di giustizia riparativa (restorative justice).

Mandela scelse infatti di sanare le ferite del Sudafrica attraverso la costruzione di un dialogo tra vittime e carnefici, in antitesi al paradigma della “giustizia dei vincitori”.

Pertanto restiamo positivi convinti che sarà possibile, passo dopo passo, modificare il pensiero comune e raggiungere tra qualche anno un modello di giustizia riparativa italiano efficace al servizio delle persone.

Carla Ciavarella

Direttore Ufficio di coordinamento dei rapporti di cooperazione istituzionale - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
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