Intervista all’On. Angelo Sanza,
Vice Presidente di Centro Democratico
On. Angelo Sanza, lei ha un’esperienza politica lunga e importante, che le consente una visione puntuale sull’evoluzione della nostra politica e dei partiti. Eletto alla Camera dei deputati continuativamente per dieci legislature dal 1972, ha ricoperto incarichi di governo e dal 2013 è il Vice Presidente di Centro Democratico. Dove si posiziona il suo partito nell’attuale geografia politica nazionale?
Si configura come un partito moderato progressista, un centro popolare che guarda a sinistra, seguendo la tradizione degasperiana, rivolgendosi al ceto medio italiano, quasi lasciato ai margini nella prospettiva politica e che noi intendiamo far tornare protagonista, interpretandone le istanze. Il cuore del nostro programma guarda alle esigenze dei ceti produttivi che costituiscono l’ossatura della Nazione, al popolo delle partite IVA, alla borghesia moderata, che si è vista erodere visibilità e considerazione, al vasto ceto popolare da valorizzare per i talenti che nascono al suo interno in una sana logica di ascensore sociale, che vede premiati i meritevoli e non i raccomandati.
È ancora attuale il progetto moderato progressista portato avanti da un partito, comunque piccolo come il suo, considerato che gli spazi della politica oggi vengono occupati da partiti sempre più grandi, aggreganti e inclusivi?
La distorsione dipende dal sistema elettorale.
I padri costituenti, consapevoli del pluralismo culturale e sociale del nostro Paese, avevano costruito una Carta Costituzionale in cui le singole culture, ricchezza dell’Italia, potessero essere valorizzate.
La DC, ispirata dallo zoccolo duro del cattolicesimo popolare sturziano, riuscì a legare una destra liberal democratica con una sinistra popolare progressista (da Andreotti a Donat Cattin) e ad equilibrare il Paese, guidandone la crescita e allargandone l’orizzonte. Pertanto, un grande centro si regge soltanto con la prospettiva di un sistema elettorale proporzionale. Al contrario, una legge maggioritaria spacca come una mela quest’area e la rende succube dell’estremismo di destra, oggi sovranista, o di una sinistra populista e grillina, ovvero di coloro che mirano a duellare per veti incrociati in un’eterna gara che dimentica Paese e cittadini
Perché Centro Democratico ha deciso di appoggiare il governo Draghi? È stata una scelta autonoma, oppure indotta dal concorso a sostegno di tutte le forze di centrosinistra?
Centro Democratico ha sempre sostenuto la formazione di maggioranze che facessero riferimento ai grandi ceppi culturali europei, dal popolarismo di marca democristiana al socialismo democratico. Quindi, come ricorderà, non abbiamo appoggiato i gialloverdi, ma abbiamo favorito la nascita del Conte bis e, a maggior ragione, la formazione del governo Draghi.
Per le contingenze economico – pandemiche abbiamo considerato che la risposta data da Draghi alle emergenze, attraverso il programma che ha elaborato e in cui ci riconoscevamo, fosse la strada maestra nell’interesse degli italiani.
Il Conte bis è stato sostenuto dal Centro Democratico, pur senza avere propri rappresentanti come ministri o sottosegretari. Oggi, invece, con l’appoggio al governo Draghi siete entrati nella squadra.
La nostra scelta è sempre stata forgiata da ragioni politico-programmatiche, non certo di mera partecipazione al potere.
Viste le considerazioni che ho appena fatto, avremmo egualmente sostenuto il Governo Draghi anche in assenza di una nostra presenza nella compagine governativa. L’importante era, per noi, che a Palazzo Chigi ci fosse un Presidente del Consiglio di prestigio, credibile, in grado di affrontare con competenza e concretezza la temperie della pandemia e della crisi economica ad essa legata.
Essendo contrari al sovranismo, come convivete nell’attuale governo con la Lega, ammesso che la Lega possa ancora considerarsi pienamente sovranista, dopo le ultime evoluzioni ispirate dall’On. Giorgetti?
Essere al governo è una sconfitta della Lega, una camicia di Nesso in cui si trova imprigionata nelle sue calate d’ingegno propagandistiche, tutto fumo e niente arrosto. In virtù di questa situazione, ha dovuto rivedere politicamente e culturalmente la propria linea, anche se con fughe in avanti, per meri scopi elettorali, un abbaiare alla luna, che mitiga dichiarando come un mantra che si riconosce nel programma di Draghi.
Ciò che conta per noi non sono le situazioni di bassa cucina, bensì l’Europa. Perché l’Europa intera partecipa a uno sforzo corale per la salute dei propri cittadini, nonché per la difesa della propria realtà economica, contro gli attacchi che le provengono da più parti: Cina, Russia e, per alcuni aspetti, con l’eclissi dell’amministrazione Trump, anche dagli Usa.
Ma questa evoluzione in senso europeista ha consentito alla Lega di accrescere i consensi, almeno stando agli ultimi sondaggi. Come lo spiega?
Non è un successo. La Lega è un partito che sta vivendo un forte dibattito interno e ciò è provato dalle incomprensibili piroette quotidiane del suo leader pro tempore. Aspetterei gli effetti del governo Draghi sulla tenuta della leadership all’interno della Lega, prima di poter dare una valutazione di lungo periodo.
Il Presidente di Centro Democratico On. Bruno Tabacci oggi è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con la delega per il coordinamento della politica economica. Che significato può attribuire a questo incarico di assoluto prestigio?
Si tratta del riconoscimento alla coerenza del nostro piccolo movimento politico, nonché dell’apprezzamento verso di lui personalmente, quale politico di lungo corso, con grandi esperienze in campo economico, espressogli dal Presidente Draghi.
Il Recovery plan, alla cui attuazione in Italia è chiamato a vigilare la struttura da lui presieduta – non a caso incastonata nella Presidenza del Consiglio – equivale, per capacità di salvataggio, al piano Marshall del dopoguerra per l’Europa, oggi distrutta dal covid con moltissime vittime e macerie economiche.
Serve un’attività di gestione e, riconoscendo le diverse funzioni dei dicasteri, Palazzo Chigi necessita di poter contare su un coordinamento. Il Dipartimento di politica economica diventa così funzionale per avere un’unica interlocuzione verso l’Europa.
Nella sua lunga carriera politica, lei è stato anche Sottosegretario agli Esteri nel 1978. Cosa pensa dell’atlantismo fortemente sostenuto da Draghi?
L’atlantismo è la forza portante della democrazia occidentale e vive se c’è parità fra le due sponde di USA ed Europa. Con Trump l’atlantismo era venuto a scemare per la scelta dell’ex presidente repubblicano di prediligere l’“America First”. Ora Joe Biden, democratico e cattolico, sulla scia della cultura di Obama di cui è stato vicepresidente, rassicura gli alleati per quel ruolo di arbitro che gli Stati Uniti hanno sempre interpretato negli equilibri mondiali.
Il tema sanità con la crisi pandemica ha riportato ad attualità il dibattito sul federalismo e la divisione dei poteri fra Stato e Regioni.
È stato un errore delegare completamente la sanità alle regioni. Occorreva distinguere la sanità territoriale, rappresentata dall’ossatura dei medici di base, una volta denominati medici di famiglia, da affidarsi al governo regionale, dal grande mondo della ricerca e dell’assistenza attraverso i plessi ospedalieri, dove la selezione della classe medica viene fatta secondo criteri nazionali e non come appannaggio della clientela regionale. Va, pertanto, rivista con urgenza la legislazione sulla sanità. Prendo spunto dalle decisioni di Joe Biden di fronte ad una pandemia, che ha invaso la Nazione, mostrandosi pervasiva e quasi del tutto incontrastata. La pandemia è da assimilare a una guerra mondiale e serve unità di comando.
Il Presidente Biden, per quanto gli Stati Uniti siano uno Stato federale, per contrastare l’emergenza ha avuto il polso di prendere decisioni centralizzate con accelerazioni sui vaccini e le cure, nonché sui ristori economici alle fasce deboli della popolazione con immediati benefici.
Una ricetta che il governo Draghi si è avviato a seguire e di cui presto beneficeremo.