Giustizia e costituzione.
Per superare la crisi di fiducia, la giustizia deve recuperare la cultura del garantismo

Dopo le vicende degli ultimi tempi e dopo la pubblicazione di diversi libri riguardanti alcune importanti vicende giudiziarie, la giustizia vive, oggi, una crisi di immagine, di credibilità e di fiducia senza precedenti. Dopo queste vicende è difficile per il cittadino credere in un equilibrato e corretto esercizio della giurisdizione e nel buon funzionamento della giustizia. Anzi, a leggere le vicende raccontate dall’ex pubblico ministero della Procura di Roma ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara, nel libro intervista “Il Sistema”, scritto insieme ad Alessandro Sallusti, il cittadino che suo malgrado dovesse incappare in un procedimento penale o in una vicenda giudiziaria, non solo non può stare tranquillo, ma ha seri motivi per essere preoccupato. E non solo per i tempi biblici della giustizia penale nel nostro Paese, ma anche per la cultura giustizialista, che ormai permea il modo di esercitare la funzione giurisdizionale. Una cultura giustizialista alimentata anche da un insano e patologico connubio fra una certa magistratura e una certa stampa.

Eppure, nella nostra Costituzione la magistratura, l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’amministrazione della giustizia in genere sono assistiti da principi e valori che dovrebbero non solo rassicurare il cittadino, ma dare ad esso la certezza di essere tutelato nei suoi diritti da una serie di garanzie, che hanno sempre fatto pensare al nostro Paese come alla culla del diritto.

Non a caso l’evoluzione e il livello del buon funzionamento e del senso di giustizia in un Paese diventa un indice della stessa evoluzione e del livello di civiltà del Paese. Più sono tutelati e garantiti i diritti civili, più il livello di civiltà di quel Paese viene ritenuto elevato. È triste osservare che se oggi dovessimo giudicare il grado di civiltà del nostro Paese dal funzionamento della giustizia, dalla durata dei processi e dalla tutela sostanziale ed effettiva dei diritti civili, esso rischierebbe di non essere definito un Paese civile.

Dopo le vicende descritte nel libro di Sallusti e Palamara, o quelle descritte in altri libri, come quello di Stefano Zurlo “Il libro nero della magistratura”, più che la culla del diritto il nostro Paese sembra essere divenuto ormai la culla del rovescio.

Al di là delle riforme strutturali e funzionali necessarie, quali la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura, la riforma del reclutamento e delle modalità di progressione di carriera dei magistrati, la riforma del processo civile, la riforma del processo penale, la riforma delle intercettazioni e la riforma della prescrizione, a cui il Parlamento dovrebbe mettere mano senza ulteriori ritardi in quanto ormai indifferibili, perché la Giustizia possa recuperare credibilità e fiducia nel cittadino, occorre un vero e proprio cambio di mentalità, anche e soprattutto da parte di noi magistrati. Occorre ristabilire con urgenza la cultura del garantismo delineata nella nostra Costituzione.

Nella nostra Carta costituzionale la giustizia e l’esercizio della funzione giurisdizionale sono funzionali ad assicurare il diritto dei cittadini alla legalità, alla correttezza, all’imparzialità, all’indipendenza, al giusto processo, alla trasparenza, all’equilibrio, alla terzietà, all’autonomia.

Oggi più che mai tutti gli operatori della giustizia, soprattutto i magistrati che esercitano la funzione giurisdizionale dovrebbero impegnarsi per riaffermare quella cultura delle garanzie capace di assicurare al cittadino una giustizia sana, corretta, trasparente, equilibrata, avveduta, vicina alle persone.

Soprattutto dopo la gravissima crisi economica e sociale dovuta all’emergenza sanitaria per la pandemia da Covid-19, occorre impegnarsi per riaffermare una giustizia giusta, efficiente, tempestiva ed imparziale.

E soprattutto i giudici devono essere consapevoli di quanto sia delicato l’esercizio della funzione giurisdizionale, considerata la sofferenza che di per sé comporta per ogni persona l’essere sottoposti ad un giudizio penale o di responsabilità per danno erariale.

Oggi la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che rischia di affermarsi come fine ultimo della giustizia, e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra Carta costituzionale, che non a caso si pone, per questa parte, fra le carte più avanzate del mondo.

Oggi sembrano essersi smarriti quei principi basilari della nostra cultura giuridica, quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui l’onere della prova incombe su chi accusa e non viceversa, il diritto del cittadino ad una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta.

Soprattutto noi giudici dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa concezione distorta del diritto e della giustizia e dobbiamo impegnarci a riaffermare la cultura delle garanzie, la tutela di quei diritti del cittadino, che i nostri padri costituenti hanno voluto scrivere con tanta chiarezza nella Costituzione.

L’esercizio della funzione giurisdizionale deve essere finalizzato all’affermazione della giustizia e all’accertamento della verità e non al giustizialismo e alla vendetta, al diritto del cittadino ad una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta, al diritto ad un giusto processo, al diritto ad una ragionevole durata del processo. Occorre impegnarsi per la riaffermazione di una giustizia dal volto umano, che sia riconciliazione e non vendetta.

Nell’esercizio della funzione giurisdizionale il giudice deve essere interprete dei principi del giusto processo, sforzarsi di declinare gli stessi assicurando l’assoluta parità tra le parti, la terzietà e l’imparzialità, la ragionevole durata del processo. Il giudice non solo deve essere terzo ed imparziale, ma deve anche apparire tale, perché mai deve far venire meno nel cittadino la fiducia nella giustizia.

Una giustizia giusta, poi, va declinata con il diritto del cittadino ad essere giudicato da un giudice sereno, equilibrato, che ispiri fiducia e non abbia altra finalità nell’esercizio della sua funzione che quella dell’accertamento della verità. E soprattutto che abbia consapevolezza del fatto che per l’imputato, o per l’indagato, o per il convenuto innanzi alla Corte dei conti, già l’essere sottoposto ad un processo costituisce di per sé una pena. Un giudizio troppo lungo diventa un anticipo di pena, anche se non si è stati ancora condannati.

Ciò tanto più se già il solo fatto di essere sottoposti ad un processo viene sbandierato in maniera strumentale, attraverso un’informazione distorta, sui mezzi di informazione e sui social networks. In questo caso la vera pena, la pena anticipata e più dolorosa, quella capace di distruggere la vita delle persone e delle famiglie, di azzerare le relazioni sociali ed umane, è la gogna mediatica, a cui si è esposti anche solo a seguito di un avviso di garanzia.

Di qui l’impegno a rendere una giustizia rapida, efficace, serena, che non calpesti i diritti del cittadino, che rassicuri e che ispiri fiducia, che sappia conciliare il diritto dello Stato ad affermare il proprio potere – nel nostro caso a perseguire il danno erariale – con i diritti del cittadino ad una giustizia giusta, assistita da tutte le garanzie previste dalla Costituzione.

E soprattutto l’esercizio della funzione giurisdizionale (come di ogni altra funzione) non deve mai diventare “potere”, nell’accezione peggiore del termine.

L’esercizio della funzione è neutro, la funzione è neutra. Essa diventa “potere” quando se ne abusa e la si deforma, la si indirizza ad altri fini da quelli previsti dalla Costituzione e dalla legge. Perciò la funzione giurisdizionale deve tendere solo all’accertamento della verità e all’affermazione della giustizia.

Ciò posto, non vorrei, tuttavia, sottacere quanto sia difficile giudicare. Basti ricordare il travaglio e la responsabilità di giudicare descritti da un giudice, Dante Troisi, che qualche decennio fa, magistrato a Cassino, ebbe modo di spiegare magistralmente nel suo “Diario di un giudice” il tormento del giudicare.

Nondimeno il giudicare deve diventare “mestiere”, abitudine, fredda applicazione della legge, come se il giudice fosse un computer: il giudice è sì soggetto solo alla legge, ma deve essere umano, si deve sempre, e ogni volta, far carico del caso specifico e del fatto che la questione su cui è chiamato a pronunciarsi, anche se per lui è abitudinaria, assume per l’imputato, o per le parti nel giudizio civile, o per il convenuto nel giudizio innanzi alla Corte dei conti, una valenza e un’importanza vitale. Egli deve sforzarsi con la sua coscienza, con il suo equilibrio, con la sua saggezza, di far coincidere la legge con la giustizia.

E non deve dimenticare che dietro le carte di un processo, dietro ad un fascicolo, ci sono persone – e famiglie – che soffrono “la pena del processo”, soprattutto se innocenti, persone a cui vanno date risposte in tempi ragionevoli, in tempi quanto più possibile brevi. Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti ad un processo viene comunque strumentalizzato, attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network.

Per questo il giudice non deve mai considerarsi estraneo al tormento di colui che è chiamato a giudicare, e giammai deve porsi nei suoi confronti con la presunzione del sapere, con la certezza di chi si ritiene depositario del giusto e del vero, con il compiacimento del potere. Deve piuttosto accostarsi con umiltà alle responsabilità del suo servizio, consapevole che ogni suo giudizio, anche il più convinto e meditato, è solo un tentativo di accertare una verità che resta pur sempre, ed in ogni caso, relativa.

Tommaso Miele

Presidente aggiunto della Corte dei conti e Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti del Lazio

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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