Non sono fantastiche per l’Italia le “previsioni economiche d’inverno” di recente elaborate dalla Commissione Europea. Infatti, dall’esame del documento, emergono 2 punti cruciali: 1) il PIL 2020 dell’Italia (-8,8%) risulta essere tra i peggiori in Europa. Peggio di noi solo Malta, Grecia e Spagna 2) quasi tutti i Paesi europei torneranno a fine 2022 ai livelli di PIL precovid ad eccezione di Italia, Grecia e Spagna. In particolare il PIL italiano, a tale data, sarà ancora inferiore del 2,4% rispetto al dato ante pandemia e forse raggiungerà il target solo a fine 2022. Quindi, con un anno abbondante di ritardo rispetto agli altri paesi europei. Il problema è che questo ritardo derivante dai nostri atavici nodi strutturali (bassa produttività, elevato costo del lavoro, tempistiche giudiziarie insostenibili, ecc.) potrebbe avere pesanti conseguenze in uno scenario così instabile quale quello attuale. Infatti, da una parte, potrebbe impedire all’Italia di agganciare la ripresa quando questa finalmente si manifesterà. Dall’altra, potrebbe ulteriormente allontanare la nostra economia da quelle degli altri partner europei. E questo è un aspetto da non sottovalutare in quanto la nostra economia ha sinora retto all’urto della pandemia anche grazie ad una serie di misure di emergenza che sono state prese a livello europeo. Misure che però, proprio per la loro natura, non potranno durare in eterno. Ad esempio, a primavera, si ritornerà a discutere del ripristino del patto di stabilità attualmente sospeso. Ed è del tutto evidente che un eventuale ripristino dei limiti di indebitamento e di spesa limiterà la capacita di recupero di quei paesi, come l’Italia, rimasti indietro sul fronte della crescita. Parallelamente, i “popoli del Nord”, attenuatasi l’emergenza, sicuramente chiederanno a gran voce che il programma PEPP varato dalla BCE per fronteggiare l’emergenza venga ridotto o abbia termine. Come noto, è stato proprio grazie a questo programma che la signora Christine Lagarde, seguendo l’impostazione draghiana, ha potuto inondare i sistemi bancari con 1700 mld di liquidità affinché le banche potessero sostenere il tessuto produttivo in crisi. Ed è bene ricordare che è stato proprio grazie a questa massa di liquidità che, ad esempio, le banche italiane hanno potuto concedere migliaia di moratorie sui mutui ed erogare migliaia di prestiti di emergenza alle imprese. Infine, anche l’atteggiamento più soft assunto dalla Vigilanza europea in relazione agli accantonamenti ed ai requisiti patrimoniali previsti per le banche a fronte dell’erogazione del credito non potrà durare all’infinito. Anche per evitare che il fardello di credito deteriorato possa nuovamente lievitare. Dunque, il punto cruciale è se l’economia italiana, una volta venute meno queste misure emergenziali che hanno fatto da “respiratore artificiale”, sia in grado di tornare a respirare autonomamente. Ma questo ritorno ad una respirazione non assistita sarà possibile solo in presenza di due fattori. Il primo, a livello micro, riguarda il rapporto banca-impresa. Infatti, questo rapporto in presenza di una crisi sistemica del comparto produttivo deve subire una modificazione genetica. Più in particolare, diventa fondamentale che gli Istituti rimodulino l’approccio alla valutazione del merito creditizio delle imprese. Anche perché una valutazione asettica delle aziende basata sugli algoritmi insiti nei sistemi di rating e sui diversi “rilevatori di anomalie”, probabilmente non andava bene neanche ante Covid, ma certamente non è compatibile con l’attuale scenario pandemico. Oggi, l’approccio della banca verso l’azienda in difficoltà non può più essere quello rivolto al mero recupero della propria posizione creditoria attraverso il rientro degli affidamenti e l’escussione delle garanzie. Anche perché, verosimilmente, si otterrebbe solo il collasso della posizione. E allora, in una crisi sistemica delle aziende dovuta a fattori esogeni, l’unica strada percorribile per la banca appare quella di sostenere al possibile le aziende finché non tornino a galleggiare da sole. Anche perché solo in questo modo si attiva una modalità “win-win”: sopravvive l’azienda che viene sorretta dalla banca fino al ritorno alla normalità, ma sopravvive anche la banca che protegge la fonte primaria della propria esistenza. Il secondo fattore, a livello macro, è connesso al fatto che le fosche previsioni della Commissione sull’Italia non tengono conto dell’impatto sulla nostra economia degli effetti del Recovery Plan. Quindi, la possibilità che la nostra economia continui a respirare una volta levati i tubi, dipenderà in gran parte dalla capacità del governo Draghi di rielaborare al più presto un Recovery Plan all’altezza della drammaticità della situazione. Ossia un piano che sia in grado, nel breve periodo, di dare una forte accelerazione alla nostra economia così da ridurre il divario di crescita con le economie dei Paesi europei. E che nel medio periodo possa generare dei mutamenti strutturali spingendo sulle infrastrutture e riducendo il divario nord-sud. Fino ad oggi, al di la dell’emergenza Covid, ci si è sempre accontentati di tentare (con scarso successo) di rendere “più ripida” la curva di crescita del nostro PIL. Con il Recovery Plan l’Italia ha, per la prima volta, la reale possibilità di spostare la propria economia su un’altra curva, ovviamente molto più favorevole rispetto a quella che stiamo faticosamente percorrendo dal dopoguerra ad oggi.