Recovery Plan e Recovery Vision

Nel Recovery Plan italiano si usa l’espressione ormai abusata “resilienza”, mutuata dalla tecnologia dei materiali ed intesa come attitudine degli stessi ad assorbire e sprigionare energia in conseguenza delle deformazioni elastiche e plastiche fino alla rottura. Nel nostro caso indica la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare efficacemente la vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che l’evento dinamico dell’esistenza offre senza, si badi bene, alienare la propria identità. Sono resilienti quelle persone, quegli organismi, quelle imprese, quelle comunità e direi quelle nazioni che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria organizzazione e persino a raggiungere mete importanti e persino imprevedibili prima degli eventi negativi.

L’era del coronavirus produrrà sul piano economico quanto accaduto in situazioni analoghe nella recente storia dell’umanità, solo con una gravità ed una rapidità esponenziale generata dalla globalizzazione, esattamente come si sta verificando per l’emergenza sanitaria. La vicenda determinerà una grande crisi economica non strutturale che, come nei cicli storici precedenti, produrrà poi grande sviluppo solo per quei Paesi e quelle imprese che abbiano avuto una “Recovery Vision” come è ben definita in medicina per i recuperi da condizioni “depressive”.

Affinché vi sia resilienza, è tuttavia richiesta una seria strategia preventiva e, al contempo, una strategia reattiva, alle quali devono corrispondere drivers consolidati e non assetti completamenti nuovi, come si sta immaginando in vari settori come quelli della crisi di impresa. Non servono affatto slogans ma visione, non “primule” ma organizzazione pianificata ed efficace, non bulimia legislativa ma efficienza applicativa, non localismi e regionalismi ma strategia unitaria nazionale e cooperazione rafforzata.

La resilienza in casi del genere è appunto di tipo “cognitivo” e richiede un contesto normativo sostenibile in quanto occorre riadattare l’esperienza. Si tratta della capacità non tanto di resistere alle deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di conoscenza ampia, scoprendo una dimensione che renda possibile la propria struttura rendendola “invulnerabile”. Vi sono processi economici e sociali che, in conseguenza del trauma costituito da una catastrofe, cessano di svilupparsi restando in una continua instabilità e, alle volte, addirittura collassano, estinguendosi; in altri casi, al contrario, sopravvivono e, anzi, proprio in conseguenza del trauma, con funzioni catartiche, trovano la forza e le risorse per una nuova fase di crescita e di affermazione in quanto capaci di programmare e gestire la reazione e talora persino la mutazione genetica.

Ma tutto dipende dall’approccio come si legge nella “Piramide degli errori” di Herbert William Heinrich (del 1931 e aggiornata da Frank E. Bird nel 1966) un incidente è solamente la punta della piramide di una serie molto più numerosa di errori ed eventi anomali che hanno concorso nel tempo a danneggiare il sistema. Questo sta ad indicare che per ogni incidente ci sono stati migliaia di piccoli segnali che lo potevano preannunciare. A questo punto, vi sono due modi diversi (ed opposti) di affrontare il problema, e rispecchiano la natura più o meno resiliente di un’organizzazione. L’organizzazione basata sulla “cultura della colpa” è caratterizzata da un velo che oscura i rischi e gli eventi anomali manifestatesi nel tempo, lasciando scoperti solamente gli episodi più gravi; è quindi un sistema che agisce soltanto quando l’incidente è avvenuto, ricercando i colpevoli. Al contrario, l’organizzazione resiliente toglie il velo e vede con limpidità tutta la piramide degli eventi che hanno concorso a danneggiare il sistema, arrivando alla base e sanando non solo gli eventi anomali, ma anche quelli che potrebbero diventarlo.

Questa deve essere la “Recovery Vision” del Paese.

La situazione drammatica prodotta dalla vicenda Covid è paragonabile solo a quella determinata dal secondo conflitto mondiale anche in termini di crollo del Pil e come in quel caso solo una reazione tempestiva può evitare che la recessione divenga depressione. Peraltro la Commissione europea ha rilevato come l’impatto negativo per l’economia dell’UE sia stato simmetrico, ma l’ampiezza del rimbalzo sarà diversa a secondo della Recovery Vision dei singoli Paesi.

Quanto realizzato nel dopoguerra scaturì da un modello teorico originale, un paradigma sperimentale con al centro la Banca Mondiale e le politiche di sviluppo internazionali, allo scopo di predisporre i programmi, i finanziamenti e l’esecuzione di opere straordinarie funzionali al progresso economico e sociale. L’Italia, in quel periodo, è riuscita a realizzare una doppia convergenza sistemica, interna ed esterna. La Cassa per il Mezzogiorno, concepita come un ente pubblico dotato di forte autonomia, ha costituito, insieme alla riforma agraria, il motore di quegli anni. L’intervento straordinario ha realizzato investimenti “guarda caso” per quasi 200 miliardi di euro (ai valori di oggi) ed ha prodotto 16.000 km di strade, 23.000 km di acquedotti, 40.000 di reti elettriche, 1.600 scuole, 165 ospedali.

Il successo fu il risultato del riconoscimento della reciprocità degli interessi tra il Nord e il Sud nel senso della complementarietà del rispettivo sistema produttivo. Ora come allora solo una convergenza di interessi interna ed esterna con Europa, Stati Uniti e Cina può funzionare.

Il big push, la grande spinta alla crescita realizzata attraverso gli ingenti investimenti non è stata completata, specie per il subentro delle Regioni e l’avvio degli interventi a pioggia. E questo errore del localismo non deve essere ripetuto. E la “perequazione infra-strutturale” con la clausola del 34% delle risorse ordinarie deve riguardare anche gli investimenti delle grandi imprese pubbliche (di quelle poche rimaste dopo il disastro delle cosiddette privatizzazioni).

È necessario un ritorno dell’intervento pubblico, non di impianto statalista, ma basato su una armoniosa ed efficace combinazione di Stato e mercato, che ponga al centro degli obiettivi di strategia industriale la funzione dell’impresa, come soggetto storico e istituzione fondamentale dell’ordinamento e del mercato. Occorre in ogni caso concentrare gli investimenti in un numero selezionato e contenuto di settori ed iniziative, altrimenti il rischio sono contegni opportunistici, “cattura del regolatore” e locupletamenti privati senza alcuna produzione di ricchezza a solo danno del debito pubblico. L’intervento deve essere dello Stato centrale e integrarsi con coordinamenti di più Regioni che organizzino “uffici unici” specializzati, in virtù dello strumento della cooperazione rafforzata ai sensi dell’art. 117, comma 8, Cost. Il punto è nodale perché la causa principale del declino della golden age fu il decentramento funzionale ed il venir meno di una strategia unitaria nazionale.

Una ultima componente della Recovery Vision deve riguardare la sanità, Mes o non Mes che sia, anche qui gli investimenti devono essere mirati altrimenti produrranno ulteriore debito pubblico e ulteriore ricchezza privata spesso opinabile frutto della “cattura del regolatore”. Qui la Resilienza si chiama Telemedicina, in grado di far recuperare tutto quanto distrutto con la graduale eliminazione delle reti fisiche territoriali. La telemedicina è l’insieme delle tecniche mediche ed informatiche che permettono la cura di un paziente a distanza o più in generale di fornire servizi sanitari da remoto. Idem per la teleassistenza che trova in particolare la migliore applicazione nei casi i di malattie croniche che necessitino di assistenza prolungata nel tempo e per la tele-infermieristica (e tele-ostetricia), pratiche che offrono supporto a distanza sul piano del monitoraggio, della sorveglianza e della consulenza laddove non sia necessario ovvero possibile lo spostamento in strutture sanitarie. In verità già prima della pandemia il cocktail esplosivo italiano fatto dal numero degli anziani e dall’aumento vertiginoso delle malattie croniche imponeva il massiccio ricorso alle nuove tecnicalità. Il Covid ha consentito di cogliere tutta l’inadeguatezza dello sforzo tecnologico finora compiuto nella sanità italiana, mancante di una politica di finalizzazione e di una strategia unitaria degli investimenti. Viceversa si è dedicato tempo all’interminabile discussione sulla localizzazione dei datacenter o a sterili polemiche come quella sulla App Immuni che evidentemente richiedeva un ambiente organizzativo di fondo per funzionare. Il cd. Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) va completamente ripensato e dovrà essere soprattutto interoperabile con le App, i devices e le interfacce consumer utilizzate ormai dalle reti sociali elettroniche di comunicazione dei cittadini su Internet. Lo stesso vale per le Cartelle Cliniche Elettroniche (CCE)dei medici di famiglia e degli specialisti ambulatoriali e ospedalieri che dovranno essere aperte alla raccolta di dati sulla continuità della cura auto-forniti dai pazienti una volta dimessi: i c.d. PROMs (Patient-Reported Outcome Measures), ovvero misure di esito riportate dal paziente e i relativi dati di interazione. 

Allo stato non esiste una vera e propria normativa specifica, al di là delle linee guida ministeriali risalenti al 2012 che oltre a inquadrare la telemedicina a livello europeo ed italiano, ne definiscono finalità e ambiti, rilevandone l’utilità con particolare riferimento al Teleconsulto (la cosiddetta second opinion in cui un medico trasmette gli esami di un paziente a un collega per un’opinione di controllo). La telemedicina in Italia conta esperienze su tutto il territorio, tanto che il Ministero ha istituito già nel 2007 un Osservatorio Nazionale con la finalità di mappare e uniformare le iniziative e stimolare la diffusione di best practice e modelli di riferimento. Nei mesi scorsi è stata fatta una mappatura di tutti i progetti di telemedicina in corso sul territorio nazionale che sono in totale ben 282. Ma manca tuttora un quadro regolatorio ed una strategia unitaria. In realtà i servizi che si avvalgono della telemedicina devono essere immediatamente collocati nella cornice normativa del SSN ed essere oggetto di un sistema di accreditamento adeguato al servizio erogato che dia garanzia ai pazienti, agli operatori e al soggetto «pagatore». Occorre anche qui individuare una recovery vision unitaria che permetta di definire un quadro regolatorio coerente a livello regionale e nazionale in grado di facilitarne l’utilizzo. Ciò anche al fine di garantire equità territoriale, sostenibilità dei costi, progettazione degli investimenti (anche privati) in grado di utilizzare i fondi in un settore più che strategico. La qualificazione della spesa sanitaria in investimenti funzionali all’implementazione della telemedicina è in grado di eliminare anche le criticità derivanti dalla sciagurata destrutturazione del sistema territoriale. Quale migliore finalizzazione delle grandi risorse che arriveranno dall’Europa e che peraltro produrranno nel medio termine minori costi di esercizio del sistema sanitario: una vera e propria “autostrada del sole”.

Francesco Fimmanò

Ordinario di diritto commerciale - Direttore scientifico Università delle Camere di Commercio Mercatorum

Registrato al Tribunale di Roma il 19/09/2018, n. 155
Direttore: Roberto Serrentino

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