La nostra Costituzione all’art 27 stabilisce che “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Il Legislatore costituente, scrivendo al plurale la parola pena, immediatamente consente di affermare che nel nostro ordinamento è possibile disciplinare diverse forme di condanna per il fatto reato, non necessariamente quella della pena detentiva in carcere.
Il nostro ordinamento, nell’ambito del sistema dell’esecuzione penale, vanta una produzione normativa di tutto rispetto e soprattutto negli ultimi decenni si è particolarmente orientato verso la declinazione di norme che potessero agevolare la scelta da parte del magistrato di comminare sanzioni alternative in luogo della detenzione.
La pena alternativa al carcere deve prevedere la possibilità di trascorrere il periodo di detenzione nel proprio domicilio (se l’autore del reato ne abbia uno), ovvero in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza (ove disponibile); il soggetto dovrebbe per esempio avere una occupazione da poter svolgere in costanza di espiazione della pena, ovvero svolgere un lavoro a compensazione del danno prodotto con l’azione criminosa commessa, privilegiando condotte riparative ed ove possibile l’attività di mediazione con la vittima del reato.
Le condizioni sopra genericamente descritte sono declinate in dettaglio da norme specifiche che descrivono le pre-condizioni per potere accedere alle diverse misure alternative alla pena detentiva: dall’affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare ed alla messa alla prova con la sospensione del procedimento penale di più recente introduzione (2014).
Parrebbe, pertanto, davvero possibile pensare che tale ventaglio di offerte abbia consentito negli anni una concreta contrazione del numero di presenze all’interno dei nostri istituti penitenziari.
Sappiamo tutti che non è così. I dati di fine 2020 ci dicono che le presenze in carcere in vigenza dell’emergenza sanitaria è di circa 54mila unità. Ad inizio del 2020 il numero delle presenze era di circa 62 mila detenuti. Nell’anno appena concluso le misure alternative in esecuzione risultano essere meno di 60mila (nel totale si calcolano anche le 18.000 concesse direttamente in udienza-messa alla prova).
Nel 2020 i provvedimenti emanati dal Governo finalizzati alla riduzione del sovraffollamento hanno agevolato la riduzione del numero di presenze che tuttavia resta elevato a fronte di una disponibilità di spazi detentivi che è di 45mila posti.
Resta attuale in molti ambienti politici e culturali lo slogan “liberarsi dalla necessità del carcere”, al quale fanno eco altri commenti analoghi, l’ultimo dei quali in ordine di tempo è quello di affermare l’inutilità del carcere stesso dichiarandone di fatto il suo fallimento.
Le Convenzioni internazionali e le Raccomandazioni europee invitano gli Stati Membri a considerare il carcere come soluzione estrema (last resort) e, quindi, ad orientare la scelta della pena da comminare verso altri istituti giuridici piuttosto che privilegiare quello della carcerazione.
In ripetute occasioni il nostro Capo dello Stato ha richiamato il Governo e le forze politiche a riflettere sulle condizioni detentive e sul sovraffollamento in cui versano i nostri istituti penitenziari (in Italia sono 189 gli istituti penitenziari attivi).
Lo scorso 12 aprile, Papa Francesco ha dedicato le quattordici meditazioni della Via Crucis della Pasqua 2020 al mondo penitenziario in una Piazza San Pietro deserta e quindi ancora più imponente nella sua perfezione architettonica. “…Penso ad un problema grave che c’è in parecchie parti del mondo. Io vorrei che oggi pregassimo per il problema del sovraffollamento nelle carceri. Dove c’è un sovraffollamento – tanta gente lì – c’è il pericolo, in questa pandemia, che finisca in una calamità grave. Preghiamo per i responsabili, per coloro che devono prendere le decisioni in questo, perché trovino una strada giusta e creativa per risolvere il problema”.
Papa Francesco non si accontenta di offrire una prospettiva di salvezza, come spesso la Chiesa si è limitata a fare. Non si affida alla retorica della rieducazione del reo. Il suo è un manifesto contro le derive securitarie degli ultimi decenni e contro un diritto penale che tratta le persone come nemici. La giustizia per papa Francesco deve essere sempre una giustizia “pro homine”.
L’associazione Antigone, nel rapporto annuale “Carcere in Italia” afferma che il costo medio di un detenuto è di 150 euro al giorno (calcolo che comprende anche il costo della retribuzione del personale preposto ai servizi penitenziari). Assicurare l’esecuzione della pena in misura alternativa è invece dieci volte inferiore. Per tale motivo si potrebbero risparmiare almeno 500 milioni di euro all’anno se la metà di queste persone potesse scontare all’esterno la sua pena.
Il vantaggio economico appare evidente. Tuttavia resta nella mente, ma soprattutto nella dimensione emotiva di molti, l’invocazione di condanne esemplari, di aumento della previsione di pene edittali e della introduzione di sempre più specifiche fattispecie di reato che possano sempre più in dettaglio definire i perimetri della colpevolezza.
Sempre leggendo i numeri, scopriamo che il 70% dei detenuti è in carcere per reati contro il patrimonio o per violazione della legge stupefacenti. La percentuale restante è invece in carcere per scontare pene per reati contro la persona.
Sono circa 18mila i detenuti stranieri ristretti in carcere e 17.500 circa i detenuti in attesa di una sentenza definitiva (sempre l’art. 27 della nostra Costituzione afferma al comma 2 che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»).
Il numero dei condannati definitivi è di circa 37mila unità, di questi solo il 30% deve scontare una condanna superiore ai 10 anni (dato che comprende i condannati alla pena dell’ergastolo e coloro i quali sono stati condannati per reati associativi ex art. 416 bis).
Dalla lettura dei numeri è possibile rilevare che la metà dei detenuti deve scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni, condizione questa che prevede per legge la possibilità di fruire di misura alternativa.
Studi di settore sostengono che l’esecuzione della pena in misura alternativa è più efficace della pena scontata in carcere, perché pare soddisfare meglio l’istanza rieducativa in quanto riduce fortemente il rischio di reiterazione di condotte illecite.
Tuttavia, le misure alternative nel nostro sistema vengono percepite da sempre (sin dalla loro introduzione nel 1975 e successive modifiche ed ampliamento) come “non pene”. Misure per evitare la galera, per “farla franca”. In realtà, in molti casi l’esecuzione della pena in misura alternativa può essere molto più faticosa ed impegnativa rispetto a quella trascorsa in carcere. In misura alternativa è necessario mostrare ogni giorno responsabilità ed adesione alle prescrizioni che ovviamente sono stringenti e prevedono comunque limitazioni di orari, di frequentazioni di luoghi, di rendimento lavorativo. La violazione delle prescrizioni comporta la revoca della misura e quindi il rientro della persona in carcere.
Per contro, la pena detentiva per sé consente alla persona di potersi sottrarre a qualunque stimolo ed opportunità trattamentale e di mostrarsi non disponibile a partecipare al programma rieducativo, attendendo inerme che il tempo della pena trascorra e giunga il giorno della scarcerazione.
Ragionare di efficacia delle modalità di esecuzione della pena significa parlare di individualizzazione dei percorsi di recupero sociale, senza facili generalizzazioni ed avendo consapevolezza della complessità del tema.
Intanto la rieducazione del condannato non può essere considerata un mandato esclusivo dell’amministrazione penitenziaria, che ha il compito di assicurare condizioni dignitose per tutte le persone ristrette e facilitare i percorsi di riabilitazione. Il compito di rieducare e di assicurare il reinserimento della persona che ha commesso reato è un compito che riguarda l’intero contesto sociale e le politiche di prevenzione che lo Stato intende attuare.
Questi percorsi hanno possibilità di compiersi ove esistano spazi idonei in grado di assicurare la presenza di aule scolastiche, sale di lettura e biblioteche, locali per la realizzazione di lavorazioni artigianali e di piccola industria, palestre e spazi aperti per l’attività fisica.
Il sovraffollamento riduce e limita queste possibilità e, quindi, è causa di inefficacia dell’azione trattamentale riabilitativa.
La legge penitenziaria Italiana è del 1975 e per molto tempo è stata ritenuta una delle più avanzate nel sistema dell’esecuzione penale in Europa e nel mondo. Già in quegli anni la nostra legge prevedeva la istituzione di equipe multidisciplinari per l’osservazione dei comportamenti dei detenuti, al fine di poter costruire dei programmi trattamentali individuali rispondenti alle caratteristiche, esigenze, aspettative personali dei singoli. Una legge che stabiliva i diritti delle persone detenute sottolineando il principio della umanizzazione della pena, della dignità delle persone, che deve essere rispettata e mantenuta anche se in regime di privazione della libertà. Una legge che stabiliva il diritto di tutti ad avere una possibilità di recupero e di reinserimento.
Questa bella costruzione di principi valoriali e di diritti ha trovato l’adesione convinta degli operatori penitenziari. Di quelle persone che hanno deciso di lavorare in carcere e di occuparsi delle persone detenute. I dirigenti penitenziari a capo degli istituti, il Corpo degli Agenti di custodia (oggi Polizia penitenziaria), gli educatori, il personale amministrativo. Ed insieme a loro i cappellani, gli insegnanti che, dipendenti del MIUR, accettano l’incarico di fare lezione in carcere, i volontari delle organizzazioni non governative che promuovono attività trattamentali e di sostegno. Ci sono anche imprese che hanno avviato con successo produzioni industriali all’interno degli istituti penitenziari assumendo detenuti e che vendono i prodotti all’esterno. Accanto a loro i magistrati di sorveglianza (che nel nostro ordinamento hanno il compito di esaminare e concedere ovvero respingere le richieste di misure alternative avanzate dai detenuti e di vigilare sulle condizioni detentive e sul rispetto dei diritti dei detenuti), l’ Ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà, i garanti regionali, provinciali e locali che sono nominati dalle rispettive istituzioni in rappresentanza delle relative comunità territoriali di riferimento per vigilare sulle condizioni di detenzione dei ristretti e creare anche il necessario collegamento tra il carcere ed il territorio, alcune Università e centri di ricerca, che si accostano a questo mondo per comprenderlo e per contribuire a fare crescere la conoscenza del sistema dell’esecuzione della pena oltre il muro.
Tuttavia non basta. Il mondo del carcere non sale all’onore delle cronache se non in occasione di fatti eclatanti, per lo più negativi, con lo scopo di continuare a fornire del carcere una sola versione: quella del luogo brutto, sporco e cattivo. Altre volte invece viene raccontato come luogo eccessivamente confortevole dove i cattivi vengono trattati con eccessiva indulgenza e buonismo.
Anche il cinema ha dato e continua a dare il proprio contributo alla conoscenza del sistema di esecuzione della pena. Tuttavia solo i fratelli Taviani sono riusciti ad andare oltre l’interesse dei “soliti noti addetti ai lavori” quando hanno realizzato all’interno del carcere di Rebibbia la versione cinematografica di un testo teatrale scritto per gli attori della compagnia teatrale di Rebibbia da Fabio Cavalli. Mi riferisco a “Cesare deve morire”, che nel 2012 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino.
Mi occupo di carcere da più di 30 anni e ho avuto la possibilità di svolgere esperienze all’esterno e di confrontarmi con colleghi di altre amministrazioni europee e non solo. Con poche e rare eccezioni (mi riferisco ai paesi scandinavi e al Canada), il prevalente sentimento comune delle società civili resta quello di rifiuto, distanza, disinteresse per le politiche penitenziarie.
Nel maggio 2015 il Ministro della Giustizia dell’epoca, Andrea Orlando, promosse gli “Stati Generali dell’esecuzione penale”, un inclusivo esercizio di approfondimento dei temi dell’esecuzione penale, al quale parteciparono rappresentanti delle istituzioni regionali e locali, del volontariato, della comunità scientifica e degli operatori penitenziari. La consultazione articolata per tavoli tematici durò poco meno di un anno e produsse utili documenti e raccomandazioni che il Ministero raccolse in un documento programmatico con allegato anche un testo normativo che prevedeva anche modifiche all’Ordinamento penitenziario.
Nel documento conclusivo e di presentazione del lavoro dei tavoli si legge, tra le altre cose “ …… se non cambia la cultura sociale della pena e se non si debella il pregiudizio in forza del quale, limitando i diritti dei condannati, si ottiene maggiore sicurezza, qualsiasi progresso rimarrà precariamente esposto alla prima “risacca legislativa” giustificata con indifferibili esigenze di tutela della collettività”. … “Se non si riesce a contrastare la diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e la corrispondente tendenza politica – elettoralmente molto redditizia – ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento, meno impegnativo e più inefficace, dell’inasprimento della repressione penale e della restrizione delle possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile, ogni riforma normativa sarà fatalmente esposta a “scorrerie legislative” di segno involutivo e “carcerocentrico”, che torneranno a determinare sovraffollamento penitenziario e a minare la credibilità stessa della funzione risocializzativa della pena. Il problema è culturale, prima ancora che normativo.”
La presentazione del lavoro svolto degli Stati generali ebbe luogo nell’aprile 2016 presso la sala teatro della Casa Circondariale di Rebibbia alla presenza del Capo dello Stato e del presidente della RAI dell’epoca (Monica Maggioni), al quale fu dato incarico di moderare una sessione dei lavori. Nonostante l’alto profilo istituzionale dato all’evento e la partecipazione dell’azienda di Stato per le telecomunicazioni, l’evento non riuscì ad ottenere la copertura mediatica nazionale che invece era lecito aspettarsi.
Tutto questo per sottolineare quanto su questo tema non si sia riusciti fino ad oggi a fare crescere cultura ed informazione adeguati.
Chi scrive partecipò al lavoro degli Stati generali, precisamente al tavolo incaricato di occuparsi di analizzare comparativamente i sistemi dell’esecuzione penale degli altri paesi europei. In quell’ambito nel corso della ricerca mi colpì in particolare l’esperienza della Finlandia. Certo si tratta di un paese molto distante da noi con il quale non abbiamo grandi affinità, tuttavia la lettura di un articolo pubblicato da una rivista scientifica di settore resta un chiaro ricordo. L’amministrazione penitenziaria finlandese sin dagli anni ’60 aveva avviato una progressiva e stringente strategia per ridurre il numero dei detenuti in carcere. In quegli anni il governo finlandese constatava che la presenza di detenuti in carcere superava le 150 unità per 100.000 abitanti. Dato questo all’epoca registrato come il più alto tra i paesi scandinavi. Il governo finlandese comprese la necessità di avviare una riforma del sistema penale attraverso un sistematico progressivo rimodellamento della politica detentiva. Tra gli anni ’60 e gli anni ’90 il percorso prescelto fu quello di depenalizzare alcuni reati (es: ubriachezza) e di annullare la norma che prevedeva automaticamente la prigione per coloro che non pagavano le multe. In seguito il processo di riforma ha riguardato la diminuzione delle pene per i reati contro la proprietà e quelli di guida in stato di ebbrezza, prevedendo l’applicazione di misure alternative e della liberazione anticipata. Quindi, è stato aumentato l’importo delle pene pecuniarie al fine di dare credibilità alla sanzione sostitutiva della pena detentiva breve (per i reati per i quali era prevista). Il sistema penale finlandese annullò la norma che prevedeva l’applicazione automatica di aumento di pena per i condannati con precedenti penali. Furono anche annullate le norme che prevedevano i casi di condanna a pena detentiva per i minori. Negli anni ‘90 sono state introdotte le misure alternative di comunità. Il numero delle presenze in carcere oggi risulta tra i più bassi dei paesi europei (57 per 100.000 abitanti).
L’esperienza finlandese dimostra che è possibile ridurre concretamente il numero della popolazione ristretta in carcere. Ma cosa ha caratterizzato il successo di quella esperienza?
In primo luogo una forte volontà politica che nel corso di quarant’anni è stata in grado di realizzare con coerenza ed in continuità una riforma sistematica della giustizia penale attraverso l’utilizzo graduale dello strumento legislativo.
I testimoni di quel percorso affermano che è stato molto importante il consenso raggiunto con tutti gli attori coinvolti: da coloro che hanno scritto le riforme a coloro i quali le hanno approvate. Consenso e condivisione che hanno consentito di non arrestare il percorso riformatore di fronte ad episodi di cronaca che parevano mettere a rischio la prospettata efficacia della riforma.
Su questo punto anche il qualificato supporto della stampa e delle televisioni è servito a rassicurare l’opinione pubblica e a fornire corrette e complete informazioni.
Le ragioni del successo sono, quindi, da ricercare nella collaborazione e cooperazione di differenti attori: la magistratura, gli avvocati, i dirigenti ed i funzionari dell’amministrazione penitenziaria, la polizia, l’università. Questa collaborazione è stata resa possibile attraverso l’organizzazione di corsi di formazione e seminari realizzati nel corso degli anni per promuovere ed informare sui contenuti della riforma penale che si stava realizzando tutte le istituzioni coinvolte. L’esperienza finlandese testimonia che una umana e razionale riforma delle politiche criminali si promuove attraverso un approfondito processo di conoscenza dei problemi che danno origine alla commissione dei reati, alla conoscenza del funzionamento del sistema di amministrazione della giustizia penale e delle strategie di prevenzione del crimine.
Non esiste una formula che possa essere applicata e considerata valida per tutte le giurisdizioni del mondo! Tuttavia l’esperienza della Finlandia con i necessari distinguo di contesto normativo e sociale potrebbe essere presa a riferimento per elaborare alcune linee guida atte a fornire il sentiero metodologico da percorrere nel corso dei prossimi 10 anni con coerenza e costanza.
Per esempio:
– è necessario avere cognizione del lavoro che si svolge nelle aule di giustizia e che riguarda i provvedimenti di carcerazione preventiva, delle sentenze di condanna e dell’applicazione delle misure alternative. Pertanto, è utile disporre di una banca dati in grado di fornire informazioni relative anche alle caratteristiche ed al profilo sociale delle persone ristrette, sul tipo di reato commesso, sul tempo trascorso in carcerazione preventiva, sulla durata delle sentenze, sui costi della detenzione. Le banche dati devono essere in grado di dialogare tra di loro. Ad oggi ne abbiamo diverse, ciascuna a suo modo efficace, ma non ancora idonea ad integrarsi con quelle di altre analoghe istituzioni per lo scambio dei dati e per fornire un quadro unitario e non frammentato del fenomeno della devianza;
– la revisione delle norme è necessaria al fine anche di decriminalizzare quelle condotte che inutilmente contribuiscono ad aumentare la popolazione ristretta in carcere. La legge dovrebbe prevedere un chiaro mandato diretto ai giudici, affinché prediligano l’applicazione di misure alternative in luogo della detenzione. La legge stessa dovrebbe stabilire il principio dell’uso della carcerazione solo come opzione residua (estrema ratio). Ogni riforma legislativa, non potendo auto implementarsi, dovrebbe essere accompagnata da un programma articolato di seminari e corsi di formazione da rivolgere a tutti i soggetti coinvolti nella sua attuazione: dai giudici a tutti coloro che, se pur con diversi livelli di responsabilità, sono coinvolti nell’attuazione delle norme per assicurarne l’esecutività;
– il percorso di riforma dovrebbe anche prevedere piani d’intervento fuori dal sistema della giustizia penale, in materia di welfare e di servizio sanitario, assegnando alle Regioni competenti un mandato non generico ma di dettaglio rispetto alla realizzazione di progetti di inclusione e di partecipazione attiva ai percorsi trattamentali alternativi inclusi quelli di giustizia riparativa. Tra gli addetti ai lavori qualcuno, leggendo queste mie brevi considerazioni di inizio d’anno, potrebbe dire che tali programmi sono già esistenti. Certo la programmazione finanziaria dei budget regionali prevede i programmi di sostegno a gruppi svantaggiati compresi i detenuti, gli ex detenuti e loro famiglie. Alcune esperienze possono definirsi buone prassi, altre sono assolutamente insoddisfacenti perché non sono in grado di garantire la sostenibilità nel lungo periodo. Anche in questo caso, come abbiamo scoperto essere per il sistema sanitario, non siamo in grado di vedere assicurati interventi uniformi ed efficaci a parità di condizioni;
– le riforme ed i programmi attuati per l’implementazione di misure alternative al carcere, dovrebbero essere costantemente monitorati, prevedendo anche la possibilità di rivedere, modificare, adattare la loro concreta attuazione, secondo le esigenze che via via emergono;
– le istituzioni, coinvolte nei progetti di attuazione dei programmi alternativi alla carcerazione, dovrebbero curare anche la costruzione di una strategia capace di raggiungere la condivisione dell’opinione pubblica. Una strategia così concepita potrebbe essere realizzata attraverso il coinvolgimento delle associazioni professionali e di organizzazioni non governative operanti nel settore della giustizia e dell’esecuzione penale con le quali siglare protocolli d’intesa per collaborare allo sviluppo di una rete operativa in grado di divulgare obiettivi, modalità ed ambiti di applicazione delle misure alternative. Tale percorso dovrebbe anche coinvolgere le associazioni delle vittime, al fine di dimostrare che i vantaggi connessi all’applicazione delle misure alternative al carcere producono effetti positivi anche sulle persone che hanno subito reati;
– le ricerche di settore rilevano come l’opinione pubblica generalmente sostiene di preferire l’imposizione di sentenze sempre più punitive, prestando più attenzione alla punizione da scontare in carcere. Le ricerche fanno anche emergere che tali opinioni sono basate su una inaccurata conoscenza del sistema penale e le opinioni mutano quando vengono invece fornite maggiori informazioni. Maggiore impegno, quindi, dovrebbe essere assicurato dai rappresentanti delle istituzioni attraverso la realizzazione di campagne d’informazione al fine di contrastare quell’opinione pubblica che incoerentemente, molto spesso perché poco informata, invoca l’utilizzo della carcerazione quale esclusiva forma possibile di punizione. Le autorità dovrebbero mettere a disposizione le loro competenze per fornire agli organi d’informazione chiari riferimenti alle regole dell’esecuzione penale, ai suoi costi, alle esperienze positive in termini di riduzione di recidiva e quindi crescita di sicurezza sociale e, quindi, di vantaggio anche economico per tutta la collettività.