In questo tempo di pandemia, post pandemia e nuova ondata di pandemia, si pone con forza il ruolo della città, le sue funzioni e le interconnessioni tra le funzioni: quello che viene definito mixitè. La mixitè costituisce oggi, nell’accezione comune, il timore del contagio!
Occorre, preliminarmente, in termini generali e di sintesi, sottolineare che puntare sulla mixitè non significa rinunciare agli spazi pubblici (di fatto oggi inaccessibili); significa, invece, guardare con rinnovato interesse ai temi della flessibilità e adattabilità di tutti i luoghi e gli spazi della città.
Se le residenze, gli ospedali, i centri di accoglienza sanitaria, i supermercati, i negozi di generi alimentari e gli impianti produttivi dei beni “necessari” rappresentano i luoghi dell’abitare (nei giorni delle limitazioni derivanti dalla pandemia), ed invece, gli uffici, le biblioteche, le scuole, le università, i luoghi di culto, i musei, i ristoranti, i centri sportivi, sono diventati improvvisamente luoghi di nessuno, ambienti metafisici, narrazioni della crisi ai tempi del coronavirus, bisogna renderli sempre più flessibili, adattabili, trasformabili, convertibili in modo reversibile agli eventuali, temporanei cambiamenti delle esigenze e dei bisogni.
Nel periodo della prima ondata di Covid 19 abbiamo assistito alla trasformazione della ex fiera di Milano in reparto ospedaliero specializzato; il centro congressi “Javits” di Manhattan in ospedale e centro di primo intervento; alcuni palazzetti dello sport a Madrid in centri di accoglienza sanitaria.
In una espressione di sintesi si può evocare il ritorno al “progetto urbano” declinato, in questo momento storico, per un’esigenza contingente legata all’emergenza. Un metodo di progettazione di parti della città della fine degli anni ’80 del secolo scorso, che videro, da Cesare Macchi Cassia a Bernardo Secchi, la possibilità di intervenire laddove la città avesse reale necessità di intervento in luogo di interventi di più di difficile realizzazione con gli strumenti tradizionali di pianificazione.
Le politiche per lo sviluppo urbano e territoriale richiedono, quindi, oggi una rimodulazione della visione strategica di lungo termine della pianificazione, che deve necessariamente sostanziarsi e articolarsi in obiettivi specifici ed operativi e che attraverso più programmi parziali e finalizzati, nel rispetto delle varie declinazioni del tessuto socio-economico-urbano, siano diretti progressivamente a realizzarla.
Per operare è necessario procedere attraverso programmi ad hoc da promuovere tramite provvedimenti snelli ed analoghi, in termini di contenuti ed iniziative in corso di attuazione oltre che, nel lungo periodo apportando quelle modifiche strutturali alla legislazione urbanistica ed agli standard urbanistici.
Pertanto, nell’immediato si può operare introducendo nelle previsioni dei prossimi atti legislativi le misure necessarie ed urgenti per l’attuazione. Tali misure potranno/dovranno essere destinate alle città indipendentemente dalla loro dimensione, atteso che l’ipotesi è quella di intervenire su porzioni di città con le modalità ed i contenuti decritti in precedenza.
Rappresentano utili riferimenti recenti, in realtà già in fase di concreta attuazione, la legge n. 190/2014 (piano aree urbane degradate) e la legge n. 208/15 (programma periferie). Tali interventi effettuano trasformazioni o manutenzioni su porzioni di città laddove esiste la criticità.
Analogamente si può proporre di intervenire per effettuare quelle mixitè di cui sopra sulla città esistente e, quindi, senza consumo di suolo. Dal punto di vista finanziario si può attingere, oltre alle misure straordinarie del bilancio dello Stato, anche puntando all’utilizzo delle economie della programmazione 2014/2020 e di quelle in corso di programmazione 2021/2027.
In sostanza si profila un approccio igienista a cui l’Italia non è nuova. Si pensi all’intervento che riguardò un grande quartiere di Napoli, nella seconda metà dell’800. Allora, una epidemia di colera impose azioni finalizzate al risanamento della città ed il varo della legge per il risanamento della città.
Oggi si può mutuare, in termini di concetto, un’azione analoga nell’enunciazione e attuale nei contenuti, con interventi di progetti urbani finalizzati alla riambientazione ed alla riduzione della densità. La riambientazione dovrà riguardare il verde urbano, mentre la riduzione della densità dovrà contemplare nuovi modelli dell’abitare le città.
Tra i luoghi della città su cui porre attenzione, oltre agli spazi pubblici, vi è tutto ciò che attiene alla residenza, in particolare, il social housing.
Infatti, la crisi sanitaria dovuta al Covid-19 e il conseguente lockdown del sistema economico/produttivo hanno innestato, in uno scenario mondiale di disparità nella distribuzione della ricchezza; è molto probabile quindi, che anche in Italia si verificherà un acuirsi delle diseguaglianze sociali e un aumento di popolazione in condizione di povertà assoluta e relativa. Questa crisi rischia di riflettersi pesantemente anche sulla condizione abitativa delle fasce deboli di popolazione nonché sui servizi ed attrezzature delle città. È molto probabile che numerose famiglie saranno presto a rischio di sfratto per morosità, avendo perso le risorse per sostenere i canoni di affitto, e altre rischieranno di perdere la casa di proprietà perché impossibilitate ad onorare il proprio mutuo. Una situazione che si va ad innestare in una condizione già carente in Italia, dove gli impegni finanziari dedicati al “diritto all’abitare” e all’edilizia sociale pubblica, ma anche più in generale alla città, al diritto alla casa ed ai servizi correlati, negli ultimi trent’anni sono stati bassissimi; l’Italia è infatti da molto tempo il paese europeo che spende meno in questo settore.
L’Housing Europe Observatory, che fotografa la condizione abitativa in Europa e che offre riflessioni anche sulla situazione italiana, nel rapporto 2019 ha evidenziato come l’accesso alla casa rappresenti ancora un problema per molti cittadini. Nel 2017, il 10,2% delle famiglie ha speso più del 40% del proprio reddito in spese abitative, percentuale che sale al 37,8% tra coloro a rischio povertà. Un problema a cui, si legge nel rapporto, i governi hanno dato risposte frammentate, perlopiù sotto forma di incentivi ad attori privati e sussidi. In Italia sono infatti sempre più diffusi i progetti di Housing Sociale, ossia iniziative e programmi che offrono alloggi e servizi di qualità a canoni accessibili a chi si trova in una situazione di vulnerabilità economica e/o sociale, a causa della quale non riesce ad accedere al mercato privato della casa, né è in possesso dei requisiti per l’accesso al servizio di edilizia residenziale pubblica. Quindi, una proposta di social housing non più concepita solo per famiglie numerose ed a basso reddito! Oggi i soggetti che hanno necessità di poter fruire del social housing sono coloro che vivono una fase di stress abitativo (a causa di perdita del lavoro, separazione, motivi di salute, ecc.), studenti, professionisti, city user, anziani e giovani coppie; tutte situazioni che derivano dalla trasformazione della nostra società (a cominciare dalle strutture familiari), dai fenomeni migratori, dalla povertà e marginalità urbana in genere.
Si tratta di definire, magari contemporaneamente ad un riposizionamento degli strumenti di solidarietà, una nuova politica abitativa nazionale a carattere ordinario individuando un flusso di risorse continuativo che consenta di programmare interventi che, unitamente al sostegno finanziario di enti territoriali, ai vari livelli, concorrano a sviluppare un’adeguata offerta di alloggi sociali in grado di dare efficaci risposte alla forte domanda riscontrabile nel Paese e nelle varie modalità e forme con le quali si presenta sul territorio.
Tale proposta è in linea anche con l’evoluzione delle politiche dell’Unione Europea, che dovrebbe trasformarsi in atti concreti attraverso strategie di più lungo respiro, come quella della istituzione del Recovery Fund (Fondo per la ripresa) nell’ambito della strategia Next generation UE.
La strategia è basata su tre pilastri che possono essere così sintetizzati: “Investire in un’Europa verde, digitale e resiliente” e, come ricordato dalla stessa Presidente Von der Leyen, l’housing sarà tra i temi prioritari di applicazione degli investimenti finanziati dal Recovery Fund.
E considerato che:
– la pandemia non sarà infinita;
– bisognerà riappropriarsi della città;
– la pandemia ha solo stimolato ed accelerato dei processi di trasformazione già in nuce,
nelle azioni di ri-pianificazione e ri-generazione della città si potrebbe includere anche quella parte di (apparente) effimero, che è rappresentato dal branding territoriale e che miri alla ri-ambientazione ed all’inverdimento del tessuto socio-urbano e produttivo.
Il branding territoriale è connesso alla capacità di attuare politiche ispirate al brand che abbiano un principio strategico da cui muovere e far riferimento. Decidere, quindi, cosa si vuole essere è un adempimento propedeutico al progetto di branding per un’identità competitiva che le città hanno. In questo scenario di rilancio del progetto urbano attraverso la rigenerazione urbana, il promotore del progetto di city branding deve essere la Politica per avviare il processo in quanto rappresentante degli interessi collettivi. E chi potrebbe essere se non essa?