La lettura della recente Enciclica di Papa Francesco, “Fratelli tutti” genera forti emozioni e stimola innumerevoli riflessioni.
Non avendo alcun titolo né strumenti per addentrarmi nelle rilevanti questioni teologiche, mi limito ad affermare che il documento colpisce per la indubbia capacità di suscitare in ciascuno, credente e non, interesse e partecipazione.
Come facilmente rilevato dai primi commenti, il tema di fondo è quello compendiato nel sottotitolo: “Sulla fraternità e l’Amicizia sociale”, tema che percorre gli otto capitoli ed i brevi quanto pregnanti paragrafi che li compongono.
Alla discussione su questo tema nessuno di coloro che operano nella dimensione culturale, sociale e politica del complesso passaggio storico che stiamo vivendo può pensare di sottrarsi.
Non v’è alcun dubbio che il documento – con argomenti che dal primo momento hanno contraddistinto il Pontificato di Papa Bergoglio, ma anche con argomenti più innovativi che non riecheggiano moniti già ascoltati – ci richiami ad un forte senso di giustizia ‘globale’; e ciò sempre sulla base della ispirazione evangelica dell’amore e della carità e della tradizione del Santo di Assisi. Da questo punto di vista, in particolare, non si registrano rilevanti novità rispetto al pensiero e all’insegnamento del Papa, già manifestatosi nella precedente Enciclica dal significativo titolo ‘Laudato sì’.
Una apparente novità, almeno argomentativa, va colta sul piano dell’approccio interculturale. Da questo punto di vista la sintesi del magistero di Francesco che pare più appropriata è quella espressa nel titolo di un paragrafo iniziale (che riprende peraltro anche un documento di Benedetto XVI): Dio è amore. E se Dio è amore, questo Amore dovrebbe essere ciò che accomuna tutte le religioni e tutte le culture, ragione per la quale da tutte le culture abbiamo da apprendere, nel contesto di un dialogo inevitabile, rispetto al quale è indispensabile abbandonare la prospettiva di una pretesa centralità della nostra cultura occidentale.
Sotto questo profilo, va sottolineato che una considerazione complessiva di tale insegnamento non può arrestarsi alla critica del messaggio identitario, con la ridefinizione dell’identità del cattolicesimo, ma comprende anche una evidente non omologazione di quel pensiero universalista, laico e illuminista che, non scevro da venature di paternalismo, ancora viene strumentalizzato per coprire finalità di dominio, laddove assume di avere il monopolio della tutela dei diritti dell’uomo, con ciò ritenendoli, in fondo, valevoli solo per alcuni e non per tutti.
Si tratta evidentemente di quella prospettiva che una critica non troppo benevola etichetta come ‘terzomondismo’ del Pontefice sudamericano, ma che a ben vedere ci induce del tutto condivisibilmente ad abbandonare alfine una visione tuttora colonialista, ancorché edulcorata dall’intento di esportare i valori delle nostre democrazie. In realtà, ciò che si vorrebbe imporre sotto tali fattezze, è la visione che imperversa anche sui canali della comunicazione globale, visione organizzata e propugnata da forze che oltretutto sfuggono a qualsivoglia controllo democratico.
Su questo piano si colgono i passaggi per me più significativi del Magistero di Francesco. La critica più incisiva, infatti, è a quella visione individualista del nostro tempo, che dietro il messaggio apparentemente corretto verso le minoranze (d’altra parte sono anch’esse composte da potenziali ‘consumatori’), cela l’obiettivo di esercitare un potere squilibrante, governando i flussi comunicazionali globali che recano contenuti squilibranti, come squilibrati sono i rapporti di potere che influiscono profondamente su ciò che viene prodotto e sui rispettivi destinatari. Molti di questi flussi, infatti, sono il risultato della affermazione di culture forti, immagini di una modernità prodotta dalle industrie culturali delle società occidentali per dominare le reti globali. Il risultato dell’inaccettabile primato dell’economia e della finanza sulla politica e sul diritto.
A petto di tutto ciò vi è che l’Autorità morale ci richiama ad un’idea di giustizia imprescindibilmente fondata sulla valorizzazione e piena tutela della persona umana, idea di giustizia che, per quanto mi è stato sempre insegnato, sin da quando frequentavo la scuola della Compagnia di Gesù ma anche sui banchi dell’Università di Stato, non rappresenta esclusivamente un imperativo morale ma un progetto codificato che trova fondamento anzitutto nella nostra Carta costituzionale. Un obiettivo del diritto!
Questo progetto di giustizia, sancito in particolare dagli art. 2 e 3 della Costituzione repubblicana (ma anche, ad esempio dall’art. 42 Cost. – non a caso il Pontefice dedica un paragrafo alla idea, non più di moda, della funzione sociale della proprietà), non può certo dirsi non condiviso da un punto di vista fattuale, anche se in anni recenti si è assistito al tentativo di smantellarlo (tentativo promosso e sostenuto, guarda caso, proprio da quei centri di potere sopra evocati), descrivendo i diritti sociali, conquista dei più deboli attraverso la partecipazione democratica, in termini di ‘costi sociali’. È sotto gli occhi di tutti cosa ha significato rappresentare e organizzare la sanità pubblica (assai significative le pagine sulla pandemia in atto), ad esempio, ragionando prevalentemente sui costi del sistema o considerare la previdenza come un costo, ormai insostenibile per la collettività. È quando si diffondono questi convincimenti che riacquista un senso lo slogan secondo il quale occorre ‘ritornare alla Costituzione’, perché di fronte a queste logiche non possiamo lasciare che si esprima soltanto l’Autorità morale, ma devono prendere posizione la politica e il diritto. Una politica che deve smetterla di oscillare tra vecchi schemi ideologici che mortificano la persona e lobby di varia natura.
Questo afferma anche Papa Bergoglio quando insiste sulla ‘’politica di cui c’è bisogno’’. In questa affermazione non vedo alcuna invasione di campo, alcun travalicamento della missione di un leader religioso che non teme di parlare al Mondo di un modo di stare insieme diverso da quello dei modelli che dominano la nostra epoca, di esprimere una concezione dell’economia e della globalizzazione ispirata dal rispetto per la dignità della persona. Si tratta d’altronde di ciò che anche Papa Wojtjyla, che per primo si è misurato con la nuova dimensione globale, ha sempre affermato, talora con toni addirittura più indignati.
Come accennavo in esordio, non ho strumenti adeguati per giudicare se tutto questo affondi le basi teologiche nella spiritualità ignaziana (niente di più ortodosso se solo si ricollocano gli insegnamenti del Santo di Loyola nel contesto della sua epoca), ma sono certo che di questi argomenti ci sia assoluta necessità se si vuol provare a restituire dignità ed etica al discorso pubblico, assumendosi la responsabilità di prendere in ordine ad essi una posizione non più eludibile.