Il governo decide di non decidere
e rinvia le riforme

Il tema delle riforme, che sia venuto il momento non più procrastinabile di realizzarle e che siano di ordine strutturale e realmente incisive, inonda il dibattito politico, interessando, a titolo esemplificativo, fisco, burocrazia, giustizia, competenze regionali, fino a toccare da ultimo anche il sistema di voto alle elezioni politiche.

Da febbraio ad oggi con la pandemia e tutte le sue problematiche, economiche e finanziarie incluse, considerati anche i 209 miliardi di euro tra prestiti e sovvenzioni a fondo perduto spettanti all’Italia, il focus politico sulle riforme è divenuto virulento, incalzante, ma solo in un’ottica comunicazionale e propagandistica. Di fatto si assiste soltanto all’apertura di qualche tavolo istituzionale di confronto da parte del governo, ma nulla più, nulla di concreto, con buona pace degli italiani che aspettano, sempre meno fiduciosi, radicali cambiamenti e dell’Unione Europea, che vorrebbe vedere una svolta e vigila.

Sul fisco non c’è alcun disegno di riforma strutturale. Non si parla di revisione del TUIR (Testo unico delle imposte sui redditi), né di una riduzione degli adempimenti periodici, di un nuovo calendario fiscale per decongestionare le scadenze, di provvedimenti diretti alla tassazione del reddito effettivo, non figurativo, ovvero presunto. Non si parla neanche più di riforma della giustizia tributaria, dell’eliminazione dell’IRAP, della diminuzione della pressione fiscale, che vede l’Italia al primo posto in Europa in termini di pressione fiscale reale. Sono previsti solo singoli provvedimenti contingenti, di modesta portata, per dare un (effimero) segnale politico di attenzione al tema.

Sulla burocrazia e la riforma della pubblica amministrazione con il decreto semplificazione il governo ha partorito il topolino. Non c’è una pubblica amministrazione al servizio del cittadino, ci sono burocrati autoreferenziati, che fanno di sé la burocrazia con tutte le storture del caso. Non si parla più di snellire i processi autorizzativi, l’iter dei permessi, né di dare impulso alle autocertificazioni.

La riforma sulla giustizia è stata accantonata. Spariti la riduzione dei tempi della giustizia civile, la revisione del processo penale con la separazione delle carriere, il riequilibrio sostanziale fra accusa e difesa nel processo penale, la riforma del CSM e del sistema di voto. Il caso Palamara vivacizza l’attenzione sulla giustizia in uno squallido dibattito se il magistrato in questione sia vittima sacrificale nel bieco sistema delle correnti, o se attore protagonista, o coattore sul palcoscenico del disfacimento della giustizia italiana, senza che si parli di riforme.

Le competenze delle regioni, in contrapposizione, o a complemento di quelle dello Stato, hanno mostrato il proprio limite nel rimbalzo di attribuzioni nei mesi più caldi della pandemia. È emersa palesemente la poca chiarezza sul “chi fa cosa”, alla luce della modifica della Costituzione del 2001 e del sovraccarico di lavoro per i giudici costituzionali impegnati a dirimere i molti conflitti di competenza fra Stato e regioni, nel coacervo di norme, spesso in contrasto fra loro, interessanti anche la legislazione concorrente. Spesso vi sono state conseguenze di ordine giudiziario per ministri e presidenti di regione, chiamati a rispondere di presunte inefficienze negli interventi locali di politica sanitaria. Di tutto ciò oggi non si parla più. I temi prioritari sono considerati altri. Ma una Commissione (ristretta) di studio sul federalismo (fiscale) non potrebbe già essere fattivamente operativa per rivedere le evidenti incongruenze? Cosa si aspetta?

Ancora dieci mesi di galleggiamento e questo governo avrà maturato i tempi, considerato il semestre bianco in cui non si potrà votare, per procedere indisturbato fino al termine della legislatura nel 2023.

L’attendentismo nelle riforme è una tecnica di questo governo, senza dubbio una pratica scientificamente scelta e accuratamente attuata.

La riforma del sistema elettorale aveva fatto un passetto in avanti con l’approvazione in Commissione Affari Costituzionali a Montecitorio del modello cosiddetto Germanicum, proporzionale con sbarramento al 5%. Ma l’esito delle ultime elezioni tenutesi in sette regioni e importanti comuni, sembra aver portato ad un ritorno di gradimento verso il maggioritario da parte dei partiti di governo, PD in testa e ciò, ovviamente, all’esito degli opportuni calcoli di convenienza. Quindi, probabile marcia indietro!

Il quadro disastroso presentato dalla Nota di aggiornamento del DEF, approvata pochi giorni fa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, espone dati scoraggianti, fra questi, un deficit pari al 10,8 del PIL, un debito cresciuto enormemente fino al 158% ed entrate tributarie diminuite nei primi 8 mesi dell’anno 2020 di 16,6 miliardi di euro.

È una fotografia ristretta, ma chiara, del quadro economico-finanziario nazionale nei primi 8 mesi del 2020, che dovrebbe imporre urgenti riforme strutturali. Ma il governo ha già fatto sapere che solo nel 2022 si avrà la vera riforma dell’IRPEF e nel 2021 si potrebbe giungere ad una vera riforma delle pensioni, atteso che quota 100 dal 2022 dovrebbe essere superata.

Quindi, tutto da fare, riforme da scrivere, tempi di attesa lunghi. L’Italia con il suo instabile governo sta sprecando un’occasione d’oro e questo, come detto, non è casuale, né accidentale. L’importante per Conte & company è solo arrivare a fine legislatura.

Roberto Serrentino

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